Beatles reality show: «Dietro le quinte della fine di un mito»

Beatles reality show: «Dietro le quinte della fine di un mito»
di Federico Vacalebre
Domenica 21 Novembre 2021, 10:30
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Sapevamo che fu Bob Dylan a introdurre i Beatles agli spinelli, esattamente il 28 agosto 1964, al Delmonico hotel di New York, ma non avevamo mai sentito i Fab Four alle prese con la sua «I shall be released». Proprio come non li avevamo mai visti intonare «Gimme some truth», diventata nel 1971 un brano anti-Nixon inciso da John Lennon in «Imagine», o «All thing must pass», title tracl del terzo lp da solista di George Harrison, il primo dopo la fine del gruppo.
Ma questo è solo una delle missioni impossibili centrate da quel reality show senza trucchi né inganni né Signorini che è «The Beatles: get back», docufilm in otto ore divise in tre puntate, in streaming su Disney+ il 25, 26 e 27 novembre.

Un altro sir, Peter Jackson, il regista della trilogia tratta da Il signore degli anelli, ha avuto accesso alle oltre 60 ore di immagini e alle centinaia di ore di audio registrate nel gennaio 1969 in un teatro di posa affittato per girare «Le incredibili avventure del signor Grand col complesso del miliardo e il pallino della truffa», film di Joseph McGrath con Peter Sellers e Ringo Starr.

Il quartetto è orfano del suo manager, Brian Epstein, scomparso nel 1967, ed è costretto ad autogestire le prove per un album, «Let it be», ed un film omonimo, quello di Michael Lindsay-Hogg.

Proprio lui, per prepararsi alle riprese del concerto di addio del 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple Records, al numero 3 di Savile Row, decide di far provare per 22 giorni i parenti serpenti che erano diventato i baronetti di Beatles. Telecamere accese, ma cercando di non dare nell'occhio: «Aveva messo microfoni ovunque. Ogni tanto, fingeva di spegnere le macchine da presa e i registratori, cercando di rubare conversazioni private», spiega Jackson, che grazie a lui mostra, ad esempio, uno scontro tra Paul McCartney e George Harrison, o la decisione, poi rientrata, di quest'ultimo di lasciare il gruppo.

In quel gennaio 1969 la fine dei Beatles, dopo dieci anni vissuti pericolosamente in cima al mondo, è già decretata, ma «Get back» ci mostra come stessero ancora lavorando insieme, persino a brani dei futuri album solistici dei magnifici quattro: agli esempi già citati si possono aggiungere «Jealous guy» per Lennon a «Another day» per Macca. Che ha visto e autorizzato la docuserie, come l'altro superstite Ringo Starr, e le vedove Olivia Harrison e Yoko Ono: «Mi hanno confessato che rivedere quelle immagini è stata una delle esperienze più stressanti della loro vita. Ma quando la Disney ha chiesto di cancellare parolacce ed espressioni forti sono intervenuti per mantenerle». «Gimme some truth», dammi un po' di verità, per dirla con Lennon.

E la verità ci fa male, perché il sogno è finito, si vede e si sente, anche se la nostalgia canaglia fa sembrare tutto bello, anche le schitarrate svogliate, le litigate su un accordo, Yoko che in silenzio staziona seduta su una sedia, muta, ma attenta a tutto quello che succede, «come una ciucciuettola», verrebbe da dire alla napoletana.

Il baronetto neozelandese confessa di aver lavorato da fan, «anche perché solo un fan poteva capire il sottotesto di tante conversazioni. Mi è sembrato di spiare la vita degli altri e quegli altri erano i miei miti. Le riprese rimaste per mezzo secolo in un caveau mi hanno reso una sorta di agente segreto addetto alle intercettazioni. Spesso i Beatles non sapevano di essere ripresi e/o registrati, o l'avevano dimenticato e... L'audio spesso è stato ricostruito, come le immagini di 50 anni fa sono state migliorate grazie alla moderna tecnologia. Come un uomo della Cia rovistavo in segreti che i nastri sonori spiegavano meglio di quelli video, grazie a registrazioni più complete. E, nello stesso tempo, raccontavo il making-off e il dietro le quinte di un film, quello di Michael Lindsay-Hogg: la più grande band del mondo preparava quel popò di roba in meno di un mese, seduta con le chitarre in mano: dopo quattro anni con il naso in quelle cose, mi sembra ancora incredibile quanto scarsa fosse l'organizzazione al loro servizio. Certo, all'inizio pensavano di doversi preparare a uno show televisivo, da tenere il 19 e 20 gennaio, l'idea del tetto non era ancora arrivata e l'ultima volta che si erano esibiti dal vivo avevano ancora Epstein che pensava a tutto. In studio quel ruolo veniva svolto da George Martin, stavolta erano da soli e dovevano vedersela da soli».

«Let it be» aveva lo stesso produttore del film con Ringo Starr che gli offerse lo studio gratuitamente: stavano provando, non registrando, così li vediamo addirittura mentre creano nuovi brani e li mettono a punto, o ci accorgiamo come John e George alzaio gli amplificatori al massimo quando vogliono dirsi qualcosa in privato: «Grazie alla tecnologia abbassiamo il rumore delle chitarre, alziamo il livello della voce e... lo spionaggio è servito. Solo una volta Paul dice: Credo che dovremmo smettere di filmare, ma, spente le telecamere, rimangono i registratori in funzione a dirci che cosa è successo».
Il 26 settembre 1969 esce «Abbey road», l'8 maggio 1970 «Let it be» che, pur registrato prima del precedente, mette la parola «The End» all'avventura da Scarafaggi. L'ultimo brano era «Get back», un invito ai protagonisti a tornarsene «da dove erano venuti».
 

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