James Senese: «Tra Usa e Napoli il sax è la mia identità»

James Senese: «Tra Usa e Napoli il sax è la mia identità»
di Federico Vacalebre
Giovedì 3 Giugno 2021, 22:01 - Ultimo agg. 22:35
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Il titolo proclama, «James is back», ma per fortuna dice bugie. Gaetano Senese, per tutti James, un tempo Jamesiello, da Miano, non è mai andato via, è sempre rimasto in trincea. Sono sessant'anni giusti dal suo esordio con Gigi e i suoi Aster, al suo fianco c'era già Mario Musella. Sessant'anni dopo, «James is back» è il ventunesimo album in una discografia dove ormai non si distinguono i lavori da solista da quelli con Napoli Centrale, tanto quel glorioso marchio, presente in copertina anche stavolta, coincide ormai con i suoi sax (tenore e soprano), la sua voce, il suo sound.
Il suono è quello di sempre ma anche in perenne divenire, verace eppure black, melodico eppure ritmico, neapolitan power aggiornato al tempo della pandemia, è c'è poco da stare allegri. Come Gato Barbieri, come Fela Kuti, James soffia nel suo strumento dando voce al suo popolo, anzi ai suoi popoli, alle sue terre, alle sue culture. Un disco bello, feroce, amaro, partenobeat, funkyjazz, postsoul, newpolitano. Chiamatelo come volete: «James is back» ed è inconfondibile, naturalmente. Etichetta Ala Bianca, con Lorenzo Campese alle tastiere, Rino Calabritto al basso, Fredy Malfi alla batteria.
Come nasce questo disco?
«Come sempre, io suono da mattina a sera, registro, quando un disco è pronto... chiama, chiede di uscire. Questo non aveva nemmeno bisogno della levatrice, della mammana, doveva nascere, venire al mondo, sfogare. La situazione non è buona, il Covid ha messo le mascherine pure ai cuori, pure ai cervelli».
Inizi con rabbia, in stile Weather Report, a te sempre cari: «Voglio parti', voglio cerca', a libertà nun ce sta».
«Perché, la libertà c'è? Oggi capiamo una cosa, domani un'altra, sbagliamo persino più di chi ci comanda, tanto sbandiamo, tanto siamo vittime del rincoglionimento digital-planetario».
Poi arriva la melodia straniante e rallentata di «L'America»: «Je sto cercanno ancora l'America. A nustalgia ce sta». Canti la terra perduta, anzi «'nu sentimento perduto».
«È la storia di sempre del figlio di John Smith, soldato americano di stanza a Napoli. Per tutti io sono un partenopeo verace, ma... Per gli americani io sono un afroamericano e amen. Ricordo la prima volta che andai negli States, suonavo all'Apollo di New York, con l'Art Ensemble of Chicago, io non capivo nulla, loro mi chiamavano brother, mi sentivano fratello. Forse l'America è il coraggio che non ho avuto, forse Napoli è la mamma che non puoi lasciare».
La title track fa pensare a James Brown, ma per sintetizzare il testo serve un tuo vecchio titolo: «'Ngazzato nire»: «Scennimmo a fa a guerra e lievammo a miezzo sti fetiente», canti.
«Sto incazzato, ho la rabbia degli inizi con Napoli Centrale: i contadini e i braccianti di Campagna forse non ci sono più, ma gli sfruttati hanno soltanto cambiato nome e lavoro, quando lo trovano».
Davvero hai voglia di fare la guerra? O la rivoluzione come suggerisci in «'O meglio amico mio».
«A 76 anni non ne ho le forze, ma il mio sax sì. Non sono un estremista, non lo sono mai stato, ma il dubbio sul futuro del pianeta è straziante».
«Addo' stamme jenno?» urli mentre il ritmo cerca la trance anestetizzante.
«È la domanda che ci facciamo tutti quando abbiamo un minimo di lucidità: dove stiamo andando?».
«Je sone» è il manifesto di una vita, di una carriera.
«Suono ancora, sessant'anni dopo. E ascolto ancora John Coltrane, e sto ancora a Miano e ho ancora i capelli arruffati».
«A vote pienzo che nun vale a pena/ e sta ncazzato pe' chi nun te siente».
«Proprio così, tanto Je sono, sono e sto sunanno ancora. Per i giusti e gli sbagliati, che chissà poi chi stabilisce chi fa bene e chi fa male».
Dopo i Nu Guinea, dopo Joseph Capriati, anche i Ps5 e Raffaele Attanasio pagano tributo al tuo sound da un versante inedito, a prescindere dalla stagione con Pino Daniele, eleggendoti a caposcuola.
«Il suono del mio sax è scolpito nel tempo, nel vento. Quell'identità confusa che la mia pelle e la mia carta d'identità creano diventa chiarissima nel sound: io sono James Senese, Gaetano Senese, o niro. Io sono il mio sassofono. Io sono il mio suono».
Sessant'anni di carriera. E, tra poco, il 19 settembre, 40 anni dal mitico concerto con Pino Daniele in piazza del Plebiscito.
«Quanti fratelli che se ne sono andati troppo presto. Quant'ammore - scrivilo con due emme, altrimenti è tutta n'ata storia - e quanta grande bellezza che ci manca. Mario Musella, Franco Del Prete, Pino, Rino Zurzolo, Joe Amoruso... I miei sessant'anni di musica sono un lampo, uno sparo nella notte. L'anniversario del concertone con il supergruppo ci ricorda una festa indimenticabile, un momento in cui eravamo tutti all'apice della forma, della creatività e la città sapeva che stavamo suonando per lei, che stavamo suonando lei».
Però quell'acme creativo fu anche la fine di tutto, il rompete le righe che diede il là alle carriere soliste cancellando il sogno del dream team.
«Era nelle cose, ci teneva insieme l'amore, non certo i magnager. Ma eravamo tutti bandleader, dovevamo seguire tutti le nostre strade. Ma se vai da un'altra parte l'amore non muore, lo porti sempre con te, lo suoni dovunque vai. Je sono ancora, per Pino e con Pino, e Mario, e Franco, e Rino, e Joe».
James is back, teniamocelo caro.
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