Non fa bene agli U2
cantare l'esperienza

U2 fotografati da Anton Corbjin
U2 fotografati da Anton Corbjin
di Federico Vacalebre
Giovedì 30 Novembre 2017, 13:11 - Ultimo agg. 13 Dicembre, 16:03
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Anche nella vita delle stelle del rock c’è un momento in cui nulla sembra più andare bene. Prendete gli U2 e soprattutto Bono: «Songs of innocence» nel 2014 fu un pasticciaccio (molto) brutto con la distribuzione gratuita a tutti gli utenti Apple che poco convinse il popolo del rock; poi per il leader venne la disastrosa caduta da bicicletta ed ulteriori gravi, quanto non specificati, problemi di salute, quindi lo scabroso coinvolgimento nel giro di elusione  fiscale dei Paradise Papers. Domani «Songs of experience» dovrebbe provare a chiudere questo periodo che solo il tour del trentennale di «The Joshua tree» aveva messo tra parentesi.
Ma il disco, e la band, non sono all’altezza del compito: il quattordicesimo album in studio della band irlandese delude e non poco, provando a tenere insieme il passato (glorioso) del gruppo e il (poco glorioso) presente del pop per inventarsi un qualche futuro. Apparentemente, il marchio di fabbrica è immutato, con mister Vox capace di aprire il suo canto con un’ottimistica dichiarazione d’intenti («Niente che possa impedire a questo giorno di essere il migliore di sempre») per poi smentirsi nei singulti di mille domande e di mille battaglie sociali, la chitarra di The Edge fedele a se stessa (e ai Beatles), il basso di Adam Clayton e la batteria di Larry Mullen junior a fare un prezioso lavoro di scansione ritmica.
Ma, sin dall’inizio, qualcosa non funziona, quasi che le canzoni dell’esperienza del titolo (ricordate il supremo Hendrix quando chiedeva «Are you experienced»?) siano quelle degli incendiari diventati pompieri, piuttosto che la seconda tappa di un racconto che dall’ingenuità porta sulla strada che dovrebbe condurre alla maturità. Succede infatti, che gli U2 sembrano autoplagiarsi, scegliendo nemmeno il meglio della propria produzione, o, peggio ancora, copiare da quanti (i Coldplay?) hanno già copiato quanto da loro fatto, aggiungendoci un pizzico di Bastille o l’autotune alla Kanye West che caratterizza il primo pezzo («Love is all we have»).
I riff uncinanti e le aperture melodiche destinate a diventare dei «singalong» da stadio non mancano, ma la varietà dei produttori impiegati fa pensare a una svogliata megaproduzione pop piuttosto come al complesso e travagliato parto di una straordinaria rock band. I versi di William Blake che hanno ispirato i due ultimi lavori si confondono con i soliti peana sull’amore («Love is bigger than anything in it’s way» e «13 (There is a light)») che può salvare il mondo e i pericoli di un pianeta stretto tra Brexit e Trump, egoismi e egoismi. Singoli come «You are the best thing about me» e «Get out of your own way» lasciano poco spazio all’ipotesi che ascolti prolungati, e diluiti nel tempo, possano recuperare al lavoro qualche voto più alto, anche se non mancano momenti di maggior spessore come «American soul» (in cui compare come un'illuminazione Kendrick Lamar), tra i pezzi più politici della partita, con tanto di neologismo da dieci e lode: Bono canta di «refu-Jesus», tenendo insieme nella stessa parola il dramma dei rifugiati e l’assenza di Gesù al loro fianco, quando governi, mercanti di morte, oceani e razzisti li mandano a morte sicura: forse è per questo che, altrove, il vocalist di rito cattolico irlandese confessa di essere stato sul punto di perdere la fede.
«Red flag day» cerca una nuova bandiera da sventolare, «The showman» avverte «il pubblico di non fidarsi mai del performer in scena» con un’ironia che può sembrare perfida nei giorni in cui il paladino delle lotte per i diritti viene presentato come il più squallido degli evasori fiscali, «The little things that give you away» cerca il tassello di congiunzione tra innocenza ed esperienza, mentre «Summer of love» non si fa notare per motivi particolari.
Nelle intenzioni le canzoni dovevano essere «lettere alla famiglia, i fans e l’America», nella realizzazione, peraltro scintillante nei suoni, la chiave sembra essersi persa, confusa nell’attenzione spasmodica di evitare un altro passo falso commerciale.

L’urgenza ispirativa del disco - se c’è - viene sopraffatta nella confusione di stili, che ora guardano agli anni Sessanta ed ora alla musica liquida dei giorni nostri. In copertina Anton Corbjin ritrae i figli di Bono, Eli, e The Edge, Sian: il loro sguardo vuoto rimanda agli occhi che svettavano sulle copertine di «Boy» e «War», gli lp alla base della costruzione del mito U2, milionari che dovranno conquistarsi sul palco la benedizione di quel che resta della platea del rock and roll nella prossima tournèe, al via il 2 di maggio da Tulsa, Oklahoma, e potrebbe arrivare in Italia già in luglio o agosto. Probabilmente in scaletta non saranno tante le canzoni di «Songs di experience».

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