U2, i 30 anni di «The Joshua tree»

U2
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di Federico Vacalebre
Venerdì 2 Giugno 2017, 10:37 - Ultimo agg. 11:07
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Beato quel paese per rocker che per far festa non ha bisogno del cinquantennale di «Sgt. Pepper's lonely hearts club band» o del trentennale di «The Joshua tree», 25 milioni di copie vendute finora. Ma, si sa, il rock ormai è paese per vecchi, sia pur capace di affascinare ancora in parte le giovani generazioni, così gli U2 se ne vanno in giro per il mondo - arriveranno il 15 e 16 luglio all'Olimpico di Roma - rileggendo le canzoni d quel disco epocale e si autocelebrano con «The Joshua tree - 30 years», disponibile in versione economica (2 cd), media (4 cd) e superdeluxe (7 lp).

Ma facciamo un salto indietro, anche per dimenticare il recentissimo selfie di Bono con Bush, scattato nella tenuta dell'ex presidente americano che un tempo il cantante avrebbe trattato come un nemico (suo e del popolo) e non come un compagno di merende, sia pur benefiche. Era il 9 marzo 1987, in America regnava Reagan, quando il disco uscì. Il quartetto irlandese era diventato la rock band per eccellenza, grazie all'uno-due della partecipazione a «Live aid» ed all'esperimento sonico di «The unforgettable fire», trascinato da un hit poderoso come «Pride». Bisognava battere il ferro finché era caldo, arrivare allo status di nuovi Rolling Stones, ammesso, e non concesso, che i Glimmer Twins avessero mai deciso di abdicare. Così arrivò un disco diretto, epicheggiante nei momenti più scontati, incupito in quelli meno tronituonanti, folgorante sin dall'incipit, la synth-chitarra di «Where the streets have no name». Un lavoro immediato, canzoni-canzoni che fanno il loro mestiere mentre The Edge tesse sulle sei corde geografie soniche che si reggono sui beat scanditi dalla premiata ditta Clayton e Mullen. Il tocco di Brian Eno viene stemperato da quello di Daniel Lanois, tra acuti come «Bullett in the blue sky», «I still haven't found what I'm looking for», «Running stand still», «Exit», «One tree hill». L'ugola di mister Vox scandisce l'era come un messia nemmeno troppo profano, è «sign of the time», per dirla con Prince, grazie anche a testi che passano dal personale al politico, dall'egoismo amoroso («With or without you») alla dimensione politica collettiva («Mothers of the disappeared», «Red hill mining time»), guardando l'America dal punto di vista dell'Europa (allora era una dimensione cultural-politica e non una parolaccia), guardando ai destini del pianeta con gli occhi spaesati di un uomo quasi qualunque.  Il deserto in cui spicca la yucca brevifolia del titolo è un'immagine potentissima, evocativa. I riferimenti religiosi sono stemperati in riff che invaderanno le radio dei cinque continenti. La bellezza selvaggia è simbolo di vuoti interiori, gli ascolti di blues, country, gospel, folk (quello irlandese riciclato dai Waterboys), dei maestri Dylan e Van Morrison, ma anche della poetessa Patti Smith, figliano un sound in cui tutto si tiene e tutto si perde. 

Fin qui quello che già sapevamo, quello che in milioni di persone hanno già ascoltato, cantato, suonato, ballato. Poi arrivano i cd - usiamoli come unità di misura, per il resto c'è lo streaming, 49 pezzi in tutto - 2, 3 e 4. In uno c'è una registrazione al Madison Square Garden del 28 settembe '87, già finita su uno storico bootleg. Gli U2 sono in gran forma, giocano con la storia del rock citando «Exodus» (ma in scaletta c'era anche la cover di «Help», che qui non compare) e mettono a fuoco panorami che forse non erano ancora ben definiti al momento del lavoro in studio. Panorami subito alterati dal dischetto con i remix affidati a vecchie conoscenze come Steve Lillywhite («Red hill...»), Flood (l'ambient mood di «Where the streets...» con parti vocali inedite), Lanois (il tocco minimalista di «With or without you» e «Running stand still»), Jacknife Lee (l'electrosound di «Bullett...»). Infine le tanto agognate b-side e outtakes, ovvero i provini, le versioni alternative rispetto ai brani poi consegnati alla stampa. Qui la scaletta ripercorre quasi integralmente quella di una ristampa del disco del 2007, con aggiunta - perché non nel cd precedente? - di remix di Lillywhite e Eno. Per chi non le ha già sono le facciate B dei 45 giri che accompagnarono l'album a fare sensazione: «Spanish eyes», «Silver and gold», «The sweetest thing», «Walk to the water», «Deep in the heart» anche all'epoca, non solo adesso, non sarebbero stati scarti di produzione, anzi.

Che dire? Il rock è come il maiale, non si butta nulla, soprattutto in tempi di vacche magrissime.

Per smetterla con paragoni che farebbero infuriare i vegani va detto che «The Joshua tree - 30 years» aggiunge poco al disco originale. Che la coincidenza delle celebrazioni con la banda dei cuori solitari del sergente Pepe ridimensiona non poco la sua portata ed influenza. Ma, anche, che la capacità di questa megaedizione di partire dalla terre desolate e desertiche per approdare ai mari di sabbia in cui non ci è dolce naufragar, è sicuramente potente, magari ancor più - nonostante i costi - se aggiunta al rito jurassico dell'ascolto vinilico.

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