Zucchero: «Sanremo non mi vuole. Nemmeno se fossi in gara»

Per i quarant'anni di carriera doppia festa al Campovolo

Zucchero: «Sanremo non mi vuole. Nemmeno se fossi in gara»
di Andrea Spinelli
Sabato 19 Novembre 2022, 07:58 - Ultimo agg. 17:22
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Accendi un diavolo in RE. Zucchero sbarca a Reggio Emilia il 9 e 10 giugno prossimi per celebrare 40 anni di carriera con due concerti (seduti) alla Rcf Arena, trasformata in megateatro all'aperto da 35.000 posti: 13.000 più del berlinese Waldbühne costruito per le Olimpiadi del '36 e da allora la struttura con posti a sedere più capiente d'Europa. «Dopo i 100.000 richiamati da Ligabue l'estate scorsa, all'Rcf Arena mancava ancora qualcosa per diventare la più grande del continente: le sedie», racconta il soulman di Roncocesi.

Un ritorno a casa: è nato a dieci chilometri.
«Anche se i miei m'hanno portato a Forte dei Marmi all'età di 12 anni, Reggio rimane la città delle radici. Ogni volta che ci torno, temo di trovarla cambiata, la ricordo da bambino: in Chocabeck racconto la giornata domenicale della frazione in cui sono cresciuto. Avrei voluto intitolare questi due concerti con un'espressione dialettale, C'àt vègna un càncher: mi è stato fatto notare che non era il caso».

A Campovolo c'era stato 10 anni fa per «Italia Loves Emilia».
«Ci ritrovammo in tanti e con lo spirito giusto; quello di accantonare ogni forma di ego per darci ad una causa importante quale il sostegno alle popolazioni terremotate».

Una domanda al Partigiano Reggiano: che impressione le ha fatto la polemica attorno a «Bella ciao», inteso da alcuni come un pezzo divisivo nonostante l'antifascismo sia un valore fondante della Repubblica?
«Ognuno fa quel che crede.

Io non sono uno che vuole accontentare tutti. Anche perché a volte questo buonismo ha portato a delle redenzioni patetiche. Una volta mio padre, intervistato da Tele Reggio durante il lavoro nei campi, ad una domanda sul mio successo rispose: Boh, a me piace il valzer e la mazurka. I Fornaciari non sono mai stati politically correct. Bella ciao è una canzone bellissima, straordinaria, conosciuta in tutto il mondo che una sera a Cuneo ho cantato con Darko Peric di La casa di carta».

La Resistenza ha un significato particolare in queste terre.
«Mia nonna mi raccontava dei partigiani e Diamante parla anche di questo. Vicino all'autostrada A1, nel tratto Campegine-Terre di Canossa, c'è una casa colonica in cui nel '44 furono trucidati dai fascisti otto partigiani che anni fa qualcuno voleva abbattere perché la motivazione era che la scritta sul murale in memoria con il verso di una mia canzone distoglieva gli automobilisti. Peccato che qualche chilometro più a Sud ci fosse un cartellone pubblicitario con un fondoschiena gigante in bella mostra che invece non disturbava il viandante. Ci siamo battuti e alla fine Casa Manfredi è rimasta in piedi».

Che cosa pensa della svolta impressa alla politica italiana dalle ultime elezioni?
«Non mi fa paura, ne abbiamo provate tante, proviamo pure questa. Anche se sui rave hanno qualche segnalino un po' strano il governo l'ha mandato e mi sono domandato: non è che ora ci proibiscono pure le Feste dell'Unità?».
Cosa pensa della tendenza a tirarsi indietro di tanti giovani artisti, in nome di un non meglio precisato «politicamente corretto», che sembra esserci oggi?
«Il mio essere musicista è totale e quindi non riesco a differenziare quel che penso da quel che faccio e canto su e giù dal palco. Certamente per aderire ad una causa, mi viene più facile fidarmi dei colleghi che dei politici. In vita mia credo di aver partecipato ad un solo evento politico prima di promettermi di non farlo mai più. Erano i primi anni Ottanta e scesi nel beneventano per suonare nel paese di Mastella con la convinzione che la mossa avrebbe agevolato la mia partecipazione a Sanremo: c'era il fior fiore del rock italiano, a cominciare da Christian, Ricchi & Poveri, Pupo... Non mi si filò nessuno però poi all'Ariston ci andai per davvero. Spero tanto non per merito di quella serata a Ceppaloni».

Se lo ricorda il suo primo concerto?
«Sì. E non fu un trionfo. Andai Sanremo con Come una notte che vola via, che non era neanche male rispetto alle sciocchezze che scrivevo al tempo e mi ritrovai in una discoteca a Rosignano Solvay con un doppio ingaggio pomeriggio e sera. Alle 16 trovai in sala un solo spettatore che, appoggiato ad una colonna, mi chiese per dieci volte Una notte che vola via e io, non avendo altro pubblico, acconsentii. Triste come un calzino aspettai con trepidazione il concerto della sera, quando mi ritrovai però in sala lo stesso spettatore del pomeriggio che, solo in mezzo al nulla, mi chiede per altre dieci volte Una notte che vola via. Ovvio che ora se invece di 20.000 spettatori ne trovo 2.500 non mi abbatto più di tanto».

Un tempo i megaeventi nei grandi spazi per un artista erano l'obiettivo di una vita. Oggi meno.
«Sono cambiati i tempi ed è cambiato pure il pubblico. Un tempo andavi allo stadio a vedere Bob Marley, Springsteen, gli U2. Neanche i Genesis si potevano permettere gli stadi. Oggi bastano due successi e fai San Siro. Molti vengono dalla strada e cercano un riscatto cantando il disagio, l'esclusione, facendo, insomma, quello che il rock non fa più. Il problema è che dopo un paio di successi diventano pop».

Sanremo?
«Lì non mi vogliono più, neanche in gara. Questa direzione guarda ad altro. Pure come autori. Anni fa non presero neppure una canzone di Guccini (Migranti per Enzo Iacchetti, respinta al mittente da Baglioni - ndr), figurarsi oggi una mia. Sarà il Festival degli influencer, tutto mirato all'audience».
 

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