Neffa: «Tra Celentano e Murolo ho trovato il mio sound»

Neffa, alias Giovanni Pellino
Neffa, alias Giovanni Pellino
di Federico Vacalebre
Giovedì 4 Febbraio 2016, 23:40 - Ultimo agg. 8 Febbraio, 11:34
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Ne ha fatta di strada Giovanni Pellino: da Scafati a Sanremo, passando dall’hardcore punk con i Negazione, alla prima scena hip hop italiana con gli Isola Posse All Stars e i Sangue Misto, sino alla svolta black pop. Già nel 2004 era passato dall’Ariston, con «Le ore piccole», swinghettino che si conquistò il titolo di brano più breve di quell’edizione. Ora ci torna, con un pezzo, «Sogni e nostalgia», il cui testo è mero pretesto per la costruzione saggia di «una canzone pop in cui c’entrano tutte le musiche che amo, che ho attraversato, che mi hanno attraversato», spiega lui, più che soddisfatto delle prove quotidiane con l’orchestra festivaliera, per lui dirette da Peppe Vessicchio.
In un album come «I molteplici mondi di Giovanni, il cantante Neffa» del 2003 elencavi le tue passioni soniche, testimoniando però l’incapacità a fonderle insieme. Stavolta che cosa è successo, invece?
«È successo che, proprio mentre il mio nome iniziava a essere in ballo per Sanremo, ho avuto uno di quei momenti compositivi che mi prendono ogni tanto e mi permettono di scrivere liberamente. Proprio quando avrei dovuto, forse voluto, scrivere per il Festival mi è venuto un concentrato dei miei umori, dei miei ascolti. Un po’ come era successo con qualche brano di “Resistenza”, il mio ultimo album, che ora riuscirà in versione extended”».
Un pezzo popolare, tra i migliori di un’edizione normalizzata, che cresce ascolto dopo ascolto senza abbacinare al primo, elegantemente orchestrato, con la voce e anche il tiro che fanno pensare a un certo Celentano.
«Col tempo la mia voce è diventata più bassa e vado a toccare le corde di un artista immenso come Adriano, che pure non era nei miei pensieri. Era già successo in “Sigarette” che avessi centrato un genere che io chiamo “Fuori dal balcone”, in cui la mia passione per certa musica nera e per certo rock anni Sessanta/Settanta trovava bilanciamento negli ascolti della canzonetta italiana con cui sono stato svezzato da quando ero bambino».
Ex punk, ex rapper, a questo punto forse anche ex soul brother: avrà pure un maestro il nuovo Neffa?
«L’incontro con Roberto Murolo, il ritrovare su disco un maestro della sua portata, mi ha permesso di rifare i conti con le mie radici. Di capire da dove viene la leggerezza di certa melodia a cui aspiro, quanto sia importante saper cantare anche l’amore in modo diverso, sapendo quanto conta il cuore e quanto la carne».
Così giovedì 11, nella serata delle cover, hai scelto di rileggere «’O sarracino».
«Sono contento che con “Tu vuo fa l’americano” di Rocco Hunt siano ben due i brani dell’americano di Napoli che risuoneranno in quella serata. Ecco, un brano come il mio, che cerca l’allegria dopo la tempesta fondendo suoni diversi, è in qualche modo figlia della sua lezione di contaminatore ma rigorosissimo, di musicista modernissimo, ma dalla sapienza antica. Con me sul palco per scatenarci ci saranno i Bluebeaters: quelli di loro che vengono dai Casino Royale avevano già inciso una “Skaravan petrol” degna di ammirazione».
Hai citato Rocco Hunt: con lui e Clementino, in qualche modo tuoi nipotini, il rap è finalmente ben rappresentato? Come ti spieghi questo predominio della scena campana?
Due o tre anni fa, quando l’hip hop è esploso anche in Italia, Sanremo non l’ha saputo o voluto intercettare. In quel momento ci sarebbero voluti almeno quattro rapper su 16/20 concorrenti per essere in sintonia con il paese reale. Oggi due artisti hip hop credo siano la giusta media, ormai il genere ha sfondato a livello mainstream e se questo è l’anno dei napoletani, anzi dei campani, oltre a non dispiacermi, vuol dire solo che loro ci hanno messo più tempo a trovare lo spazio che meritavano. Clementino è un campione che viene da lontano e anche Rocchino, nonostante la giovane età, ha ormai una bella gavetta alle spalle».
Ma è vero che hai scritto la tua prima canzone in napoletano?
«Sì. Si intitola “’Nu canario ‘mparaviso”, l’ho regalata a mia madre, parla della dipartita di Ciccilluzzo, il canarino di famiglia. Vessicchio mi ha dato qualche lezione su come si scrive in dialetto, illuminandomi sugli stili, la grafia, la grammatica. A proposito, vorrei tornare sul discorso dei rapper newpolitani: non mi piace come scrivono le loro liriche, il dialetto ha le sue regole, è troppo facile metterlo giù come si pronuncia con la solita scusa del ghetto metropolitano, delle elisioni... Meglio studiare e imparare come si fa, solo allora si potrà anche azzardare qualche innovazione».
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