Ai Weiwei presenta i costumi di Turandot: «Abbiamo una vita breve, vale la pena fare rumore»

Ai Weiwei con i costumi di Turandot
Ai Weiwei con i costumi di Turandot
di Simona Antonucci
Venerdì 6 Marzo 2020, 22:12 - Ultimo agg. 22:14
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Sarà la storia contemporanea a vestire i personaggi della Turandot, nell’allestimento-evento, firmato dall’artista cinese Ai Weiwei, 62 anni, che per la prima volta traduce la sua creatività in una regia lirica. Produzione kolossal, prevista per il 22 marzo, ma da riprogrammare al termine dell’emergenza coronavirus. Copricapo come bombe di Hiroshima, giubbotti di salvataggio, mantelli con il suo terzo “finger”, tute anti-sommossa, ma anche principesse-farfalla, rospi arrampicatori sociali, caftani con slogan ricamati a mano. E persino divise dei medici in trincea per la pandemia. Un corteo di personaggi rubati alla cronaca, cui Weiwei restituisce poesia «perché», spiega, «ho cara la bellezza e l’estetica anche nelle condizioni peggiori: siamo comunque sognatori». 
 

 


Più di duecento i costumi che ha immaginato per lo spettacolo, leggendario anche perché al momento non si sa quando si vedrà, di cui firma regia, scene, luci, coreografie, video, abiti... «La produzione più impegnativa che abbia mai affrontato», aggiunge il guru iperconnesso, ma anche scatenato ballerino hip hop quando fa il verso al tormentone Gangnam Style. Tra i blitz all’officina che sta costruendo la sua scenografia-mappamondo ispirata alle rovine romane, Weiwei, costantemente “placcato” dalla sua squadra di cineoperatori che documenta ogni passaggio di questo dietro le quinte, ha trasformato in un atelier d’arte, la sartoria del Costanzi, diretta da Anna Biagiotti, al lavoro sul progetto, nonostante le prove siano al momento sospese.

E, così, gli aghi degli artigiani che hanno “cucito” pagine di musica, sono ora impegnati a trasformare le sue visioni in cappe, parrucche, scarpe: costumi che creino un ponte tra il capolavoro di Puccini, ambientato in una Pechino dove i rifugiati tartari sono ridotti a «ultimi della società», e il mondo contemporaneo assillato «da tante, troppe urgenze», spiega il Maestro, «di cui abbiamo il dovere di parlare perché l’arte ha la possibilità di difendere i diritti essenziali».

Otto mesi di scambi («abbiamo 50 ore di ascolto», spiega Biagiotti), video-chiamate e ora confronti quotidiani, per dare forma alle centinaia di costumi che faranno sfilare sul palco la sua umanità: «Le mie opere sono definite dal modo in cui affrontano il valore della libertà umana», ha scritto in un suo saggio intitolato, appunto Umanità, «un individuo che sta su questo pianeta, usa la propria mente e si mette ad agire, può costruire una comunicazione per affrettare il cambiamento».

Pensiero che applicato alla scena trasforma Ping, Pong e Pang, i funzionari imperiali, in “mannequin” dei simboli chiave dell’arte di Ai Weiwei, del suo modo di produrre bellezza, trasformando il mondo, con tutte le sue bruttezze, in opere: avranno in testa la bomba, protagonista di molte sue mostre, le telecamere delle guardie anti-rivolta, denunciate nei suoi video, e il dito medio, con cui spesso il creativo, ha manifestato il suo dissenso nei confronti di molti establishment, Colosseo compreso. Turandot sarà un candido bossolo nel primo atto, per diventare farfalla quando comincerà a cantare, con un ragno tra i capelli. Liù, una scultura egizia. I Sapienti, avranno ricami con granchi dalle corazze senz’anima, e omini Lego. E ai mimi toccherà una mascherina da Coronavirus.

«Tutto è work in progress. A differenza delle altre produzioni», spiega Biagiotti, «qui non siamo partiti dai bozzetti, ma dal suo pensiero, dalle sue opere raccolte nei musei, ma anche dai post su Instagram. Il laboratorio è entrato in sintonia con l’artista», racconta mostrando due dei cappelli del coro costruiti con pupazzi dalle sembianze di Alan Kurdi e di altri bimbi vittime di stragi. Ogni costume racconta qualcosa.

«E ogni storia», interviene Weiwei mentre indossa il paletot di Calaf, «ha più livelli da comunicare. Nell’opera di Puccini c’è l’amore, ma anche il potere, le principesse e i rifugiati, le ostilità tra popoli, che nonostante il passare del tempo sembrano ripetersi».

Calaf, figlio del re imprigionato, porta sulle spalle un rospo gigante: «È qualcosa che lo insidia, come il fascino del potere quando s’innamora della principessa», continua la direttrice della sartoria, mentre passa in rassegna, insieme con il collaboratore Carlo Di Mascolo e l’assistente Elisa Cobello, gli abiti del coro. «Sono 115, divisi in gruppi tematici: l’establishment porta kimono con calotte a raggiera inaccessibili, la squadra garbage ha tuniche in plastica gonfie di spazzatura. Ce ne sono alcuni che ricordano i ragazzi di Hong Kong, con ombrelli marchiati dal finger, parastinchi, zainetti, caschi. E poi la sezione che abbiamo soprannominato “Weiwei” con i life jacket della sua collezione privata che ci ha concesso di utilizzare». 

«Parrucche, scarpe, stoffe, tutto è confezionato con materiali non da passerella», spiega Di Mascolo, «abbiamo attraversato l’Italia per trovare stoffe dall’effetto non convenzionale».
Riviste anche le proporzioni, «tra spalla e punto vita, maniche, collo: ogni capo è un’installazione. E non è stato semplice trasformare il “Weiwei pensiero” in costumi da indossare per lo spettacolo». Un’officina di idee per uno spettacolo che è già un evento, prima di debuttare. «Tutti abbiamo una vita, breve, abbiamo solo un attimo per far sentire la nostra voce e usare le poche capacità che abbiamo», conclude Weiwei, «vale la pena fare un po’ di rumore». 

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