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«Don Carlo» al San Carlo di Napoli; il Grande Inquisitore tra le note di Verdi

Il teatro musicale e il fascino della tensione

di Donatella Longobardi
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 26 Novembre 2022, 13:04
6 Minuti di Lettura

Sipario alle 17 sul «Don Carlo» di Verdi che apre la stagione del San Carlo. Versione di cinque atti in italiano, durata circa quattro ore e mezzo compresi due intervalli. La Rai registra e trasmette l'opera in differita su Rai5 la sera stessa, a partire alle 21.15. Attesi il ministro della Cultura Sangiuliano e degli Esteri, Tajani. Ad accoglierli il sindaco Manfredi, in sala anche il produttore Tarak Ben Ammar, gli scrittori Giancarlo De Cataldo e Diego De Silva, l'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, il sovrintendente della Scala Meyer, il procuratore nazionale antimafia Melillo, il presidente del Louvre Laurance Des Cars, il sindaco di Bologna Lepore...

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In prima fila una poltrona lasciata simbolicamente vuota per ricordare le donne vittime di violenza. Sul podio Juraj Valcuha per l'ultima volta come direttore musicale del teatro, da gennaio al suo posto arriva Dan Ettinger. Cast all star: Michele Pertusi è Filippo II, Matthew Polenzani Don Carlo, Ailyn Perez Elisabetta di Valois, Elina Garanca la principessa Eboli, Ludovic Tézier Rodrigo, Alexander Tsymbalyuk il Grande Inquisitore. La regia è del tedesco Claus Guth, al suo debutto a Napoli. Con il suo staff (Etienne Pluss alle scene, Petra Reinhardt ai costumi, Olaf Freese alle luci e video di Roland Horvath) che con l'ausilio della drammaturgia di Yvonne Gebauer ha creato un nuovo allestimento senza tempo in cui il dramma del giovane figlio del re di Spagna è il fulcro dell'opera e gli altri personaggi fanno parte di un potere oppressivo e dispotico. Con un'unica digressione al testo: l'inserimento di un personaggio che assomiglia ai guitti di corte dipinti da Velazquez.

«Don Carlo», spiega Guth, «non riesce a inserirsi nel sistema, ha subito un trauma infantile. La madre è morta quando lui è nato, ha conosciuto il padre quando aveva sei anni, è cresciuto come un fiore senza luce, alla costante ricerca di riconoscimento e di amore». Un amore che pensa di aver trovato in Elisabetta, giovane erede dei Valois, che invece per ragion di Stato va sposa a suo padre e ne diventa la matrigna. Gli resta l'amico, Rodrigo, che sogna la liberazione delle Fiandre e, cercando un alleato in Carlo, lo strumentalizza per i suoi scopi. In questo contesto, il regista vede Filippo come la figura «più impotente e disperata» dell'intera opera, quella in cui Verdi «ha composto per lui il ritratto dell'uomo potente e solitario. Dietro il suo potere c'è quello del Grande Inquisitore, identificato oggi nella rete invisibile che può impigliare e avvolgere anche un politico». Per questo Guth lo ha liberato dei segni clericali e trasportato il personaggio ai nostri tempi, l'unico in abiti moderni. Gli altri personaggi mantengono i segni distintivi delle figure originarie, il re e la regina la corona, la Eboli la gonna con le crinoline. Solo Don Carlo ha un costume diverso che non si adatta al mondo della corte mentre, sullo sfondo, il coro diretto da Josè Luis Basso è sistemato su una tribuna. Al centro fa mostra di sé un antico pavimento dai quadroni trapezioidali bianchi e neri identici a quelli del duomo di Napoli. Tanti i segni scenici, i rimandi al presente. Il motivo? «Mi interessa aprire le porte del nostro tempo per creare spunti di riflessione su alcune situazioni politiche contemporanee».

«No, non facciamo nomi. Ma è la storia dei nostri giorni. Pensiamo a una terra oppressa in cerca di libertà, pensiamo a un potente che gestisce le trame del governo e vuole dominare il mondo, a giovani cresciuti tra mille difficoltà e vittime di un sistema sbagliato», nota Ludovic Tézier ormai beniamino del pubblico di Napoli dove dall'inizio dell'era Lissner ha preso parte a più opere e concerti e dove tornerà come «Rigoletto» a gennaio. Il baritono marsigliese innamorato di Napoli, è il maggior sostenitore dell'idea di Guth e del suo allestimento senza tempo, senza i fasti dell'Escorial, i giardini di Fontainebleau, il convento di San Giusto: «Come artista ho delle responsabilità che vanno oltre le mura del teatro, devo trasmettere un messaggio, accendere una luce in chi ascolta, il teatro di Verdi è sempre una metafora». E il suo Rodrigo? «Un po' ambiguo, non come Jago. È una persona che punta solo a trovare proseliti per la sua causa, la libertà delle Fiandre, e in questo cerca di coinvolgere l'amico Carlo», spiega Tézier che ha affrontato molte volte il ruolo in varie versioni, a partire proprio dalla versione italiana. «Era a Tolosa anni fa con una compagnia italiana di prestigio: Scandiuzzi, Armiliato, la Dessì. Mi hanno aiutato molto, li ringrazio ancora per i suggerimenti importanti. Successivamente ho imparato la versione francese e mi sono accorto di come la italiana e la francese siano diverse ma complementari, quella francese in particolare la trovo meno eroica».

Anche la Garanca ha cantato già l'opera nella stesura originaria, in francese: «Cambia molto, forse è anche la lingua italiana che imprime più carattere alla Eboli, una donna forte che sopravvive in un mondo di maschi cercando di utilizzare i loro stessi mezzi». Una donna che si confronta alla pari con la giovane Valois della Perez, voce verdiana per eccellenza, che qui debutta nel ruolo. Per la sua Elisabetta l'amore impossibile con Don Carlo, il tenore americano Matthew Polenzani che ha debuttato nel ruolo in francese sei mesi fa al Metropolitan di New York e ora affronta la nuova avventura: «In francese forse è più facile, in italiano cambia. Carlo sembra una persona diversa, è meno sicuro di se stesso, nasconde i suoi tormenti interiori, i suoi problemi affettivi. Ma non è pazzo. Oggi diremmo che è una persona disturbata, ansiosa. Anche la partitura ha ritmi diversi. Pare scritta apposta per la mia voce. Una sfida per me che amo molto l'opera francese e specialmente Werther, il mio preferito».

E il canto italiano? «Ho imparato la lingua studiando i libretti d'opera, anche se la mia famiglia ha origini italiane. Mio nonno veniva da Città di Castello. Più italiana, anzi napoletana, è mia moglie Rosamaria che mi aiuta anche a intonare le canzoni in dialetto napoletano. I suoi genitori Rosaria e Francesco Pascarella sono di un piccolissimo paese in provincia di Caserta, Cervino. Lì vive ancora gran parte della famiglia, verranno ad ascoltarmi in una delle repliche», racconta Polenzani, per la terza volta al San Carlo. La prima nel 2005 quando, giovane di belle speranze, cantò nell'«Elisir d'amore» messo in scena da Massimo Ranieri, la seconda nel 2011 per la «Messa da requiem» di Verdi diretta da Riccardo Muti. E cosa ricorda di quelle occasioni? «La sala splendida, innanzi tutto. Con Ranieri cantai Una furtiva lagrima in bilico su un'altalena, difficilissimo, ma che trionfo alla fine!».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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