Emanuela Grimalda, parlo di me: «La comicità è quella che osa, da 20 anni porto in scena il monologo col pollo morto»

Emanuela Grimalda, parlo di me: «La comicità è quella che osa, da 20 anni porto in scena il monologo col pollo morto»
di Angelo Carotenuto
Sabato 24 Settembre 2022, 12:00
7 Minuti di Lettura

Nel salone della sua casa romana, al centro del tavolo, Emanuela Grimalda tiene aperta la riedizione di «La scena delle donne», saggio di Costantini e Moretti sul ruolo della presenza femminile in teatro. La sua scena è una galleria di volti e storie, dove la Ave del Medico in Famiglia vive accanto alle Difettose, donne che cercano la maternità attraverso la procreazione assistita; dove Dio è una signora di mezza età, e un'anziana nei bassi di Napoli fa telefonate erotiche. Ironia e militanza. «Quel che sei, si vede in ogni cosa che fai. Anche in un personaggio caratterizzato, ho messo l'indipendenza e l'arguzia delle donne forti». Sono forti Le Supreme, lo spettacolo scritto con Marco Martinelli per raccontare «quello che le donne hanno smosso nella storia», col progetto di andare nelle scuole, «per incentivare le ragazze a iscriversi a certi corsi. Sembra non siano esistite scienziate, dai libri di storia dell'arte sono espulse le pittrici. In letteratura le donne sono presenti perché potevano scrivere chiuse in camera». Grimalda parla di tutto questo portandosi dietro l'etichetta di attrice comica.

C'è qualcosa di cui non si può ridere?
«Sono una cultrice dell'umorismo ebraico, mi piacciono le persone che non si spaventano e gli autori dissacranti. Le scorciatoie no, la parolaccia è liberatoria rispetto ai tabù, ma non sarei felice di essere criticata per la sua banalità. Mi sono attirata delle ire perché da 20 anni faccio un monologo con un pollo morto».

Il politicamente corretto è un ostacolo?
«A un talk in America, Ricky Gervais parlava di ateismo con un credente, facendo notare che nel mondo esistono tremila divinità. Chi crede nel suo dio, è dunque ateo rispetto agli altri 2.999. Se un artista porta una tale prospettiva filosofica, si può ridere di tutto.

La comicità ha sempre osato. Una volta avevo un numero su una compagna di classe gobba, adesso sarei contestata. Sulla balbuzie i comici hanno sguazzato. Sordi era cinico, pensi al dentone. Sui corpi ora si fa fatica a scherzare. Credo dipenda dai social e dalla diffusione della parola sfigato. È una continua berlina. Da 4mila anni i comici usano una deficienza per ridere non di una persona, ma del genere umano. Un'opera che si prende questa responsabilità, non mi scandalizza. Ma poiché tutti lanciano fango restando nascosti, si sono alzati i livelli di auto-difesa».

Anche in lei?
«Guardi, noi donne abbiamo accettato anni di misoginia spaventosa, mi sono fatta piacere battute sulle suocere e sulle mogli rompiscatole, trovo paradossale che ora dicano qualcosa a me. Le cattiverie fanno ridere. Nel film Donne di Cukor, le attrici sono paragonate a degli animali. Mettono lo smalto rosso jungla, sono terribili tra loro, eppure il film è meraviglioso, pieno di eleganza e verve. In un cliché, del vero esiste. Come nella propaganda. Altrimenti non farebbe ridere. Diventa una distorsione quando la parte viene spacciata per il tutto».

Mentre portava in scena Le Difettose, è diventata madre a 51 anni. Cosa ha pensato della coincidenza?
«La vita e l'arte non sono così separate. Quando lessi il romanzo di Eleonora Mazzoni, trovai subito meraviglioso il titolo. È anche una riflessione sul tempo biologico, su cosa è un bisogno, cosa è un diritto. Parla di persone che devi ascoltare, senza giudicare. Il teatro fa questo. Sono otto personaggi, con due uomini, i grandi silenti a margine di storie così. La mia è stata una coincidenza che ho vissuto con naturalezza. Jung ha detto: andate in analisi, o penserete che quello che vi muove, si chiama destino. Agli altri pare strano, a me pare strano parlarne. È una cosa troppo privata».

Esiste una comicità femminile?
«Nell'arte non ci sono generi. Credo che esistano punti di vista. Non tutte le donne che scrivono, ne hanno uno femminile, così come abbiamo avuto uomini capaci di inventare Emma Bovary. Più del genere, sono la sensibilità e la conoscenza a far cogliere la distanza tra la vita di un uomo e quella di una donna. L'artista vero fa sempre un passo oltre sé stesso».

È un inganno pensare che questo sia il momento più favorevole per una donna?
«Alle ragazze viene fatto credere che possono preoccuparsi solo del colore dello smalto. Che ci siano ancora battaglie da fare, mi pare invece evidente. Intanto, le conquiste non sono mai definitive. Si torna indietro con grande rapidità e si procede in avanti con superiore lentezza. Nascere in Italia è stato un privilegio. Ho avuto diritti negati in altri luoghi del mondo. Ma abbiamo introiettato modelli culturali. Mio padre era un esule, vengo da Trieste, città di confine, dove avverti il senso di qualcosa più grande di te. Le figure maschili della mia famiglia erano sfocate, netto invece il carattere di certe zie, donne Anni 20 che vivevano una realtà costrittiva, restando fortissime. Non è che avessi bisogno di leggere Simone de Beauvoir, per capire come girava il mondo. Bastava vederle voltare la polenta e badare ai figli, al ritorno da una giornata nei campi, mentre l'uomo stava seduto con la bottiglia di rosso, senza muovere un muscolo».

Come se ne parla ai bambini? Sono più pronti?
«Ai loro occhi è tutto più naturale. Mio figlio andava all'asilo e un giorno in classe si è aggiunta una bimba adottata dall'Africa. Quando è tornato, gli ho chiesto di lei. Mi ha risposto: è diversa, parla in francese. I bambini ti spiazzano. Se io gli dico che domenica vengono i nonni, lui risponde che no, c'è pure la nonna. I nonni sono solo maschi. Così con bambini e bambine. Se lo notano a 7 anni, è strano che gli adulti si irritino. La schwa, l'asterisco: non lo so come si risolve. Anche di questo si può ridere, come di ogni esagerazione, non accetto che si rida del tema. Ridiamo del Gatto e la Volpe che sono zoppo e cieco, ma non diventa irrilevante la cecità. Il linguaggio è il pensiero».

Quando Armstrong tornò dalla Luna, gli chiesero se avesse visto Dio. Rispose: She is Black. Lei recita un Dio che è una donna di mezza età. Siamo ancora a quel punto della storia?
«Non mi sembra che da Armstrong in poi, le donne siano state trattate da Dio. Quelle nere, poi. Al cinema ci sono pochi ruoli. La soluzione non è girare Otto donne e un mistero con un cast tutto femminile. Chiameranno le solite otto. Serve una distribuzione più equa. Siamo artisti, ma pure noi abbiamo l'Inps da pagare. Rivendico pari opportunità. Non esiste solo il pum-pum per raccontare la mafia, ma anche le sue donne. Ti dicono: una l'abbiamo messa. Una. Come ai convegni tra nove uomini. Le femministe la chiamavano la donna-alibi. Come se una possa rappresentare tutte. Nelle tombe romane, l'uomo era scolpito nei dettagli, la donna era abbozzata. Ci sei tu, e vali per le altre. Allora chiedo io: siamo ancora a quel punto?».

Nel 1985 una 16enne scriveva Sposerò Simon Le Bon. Lei ha recitato in una serie in cui è una donna a voler fare la rock-star. Cosa significa?
«Che per me è stato diverso rispetto a mia madre. Ho potuto scegliere. Ma amare Pretty Woman, mettere le paillettes, non significa disdegnare l'impegno. Sono dicotomie che piacciono agli uomini. Abbiamo superato l'idea che la femminista dovesse avere la divisa. Abbiamo fatto pace pure col cliché che si possa far ridere senza essere racchia. Non mi sono mai sentita attrice necessariamente comica, ma quando sono arrivata a Roma dal Dams di Bologna, il mio primo agente mi ha detto: hai già 30 anni, non sei bella in senso tradizionale, trovati un personaggio comico. Avevo delle foto in bianco e nero. Le scartò: Si deve vedere che sei spiritosa, fanne una su una discarica di monnezza con un fiore in testa. Oggi penso che sarebbe la rappresentazione perfetta dell'Italia. Da un cumulo di macerie, esce un'idea di speranza e bellezza. Alla De André. Prima o poi, questa foto, la devo fare». 

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