Merola jr, la sceneggiata nel dna

Francesco Merola e Gianni Fiorellino in "Zappatore"
Francesco Merola e Gianni Fiorellino in "Zappatore"
di Federico Vacalebre
Sabato 7 Gennaio 2017, 15:19 - Ultimo agg. 15:34
3 Minuti di Lettura

La sfida era doppia: da un lato c’era un figlio, Francesco Merola, calato nei panni, e nel mantello, del ruolo che fu cavallo di battaglia del padre Mario; dall’alto c’è la domanda sul senso dell’operazione che sempre accoglie esperimenti di rivitalizzazione della sceneggiata, la «puttana dell’arte» per Viviani, inventata per superare le tasse che gravavano sull’«immorale» varietà fondendo teatro e canzone, anzi costruendo intorno ad una canzone di successo un teatrino di varia umanità: isso, essa (spesso ‘a malafemmena), ‘o malamente, i comici, i guappi, ‘o nennillo... Arte popolare, povera, naif, illuminata a suo tempo da attori che sapevano incarnarla letteralmente e da un pubblico che partecipava al rito abbattendo la separazione tra palco e platea, vivendo l’azione come non fosse finzione, da tifosi. Nel ritrovato Trianon, alla prima produzione del suo nuovo corso, qualche accenno di questa verace vitalità arrivava, ma come profumo d’epoca, eco vintage, archeologia della messinscena.
Nino D’Angelo, ideatore di uno spettacolo-omaggio al re della sceneggiata nel decimo anniversario della morte, non immagina possibili revival del genere, nè cerca riletture postmoderniste, anzi, affida a Bruno Garofalo regia e scene volutamente naturalistiche, come i costumi di Grazia Nicotra, come gli arrangiamenti da orchestrina in buca di Enzo Campagnoli, come la recitazione di una compagnia che alterna la vis comica dell’esperta Gina Perna e del figlio d’arte Massimo Salvetti alla freschezza di Gianni Fiorellino, l’esperienza di Lina Santoro alla grazia di Rossella Amato e Tiziana De Giacomo. «Zappatore», tratto dal capolavoro melò di Bovio e Albano, parte dall’allestimento della compagnia di Enzo Vitale nel ‘53 e non attualizza niente, anzi cristallizza l’inattualità, non della storia, in fondo modernissima nei rapporti di classe tristemente messi in campo, ma dell’idea stessa di spettacolo sottesa a una simile rappresentazione. Che pure scorre spontanea, con la sorpresa di una costruzione degli interventi canori tutti meroliani doc, da «Freva ‘e gelusia» a «Ciento catene», passando per gli sketch comici che riscrivono «Spusalizio ‘e marenare» e «’A cassa integrazione».
Quello che dà il senso a tutto, e che fa vincere le due sfide, è la prova di Francesco Merola, che aveva giurato di non indossare mai il mantello dello zappatore e che invece lo porta con naturalezza, senza esagerare, identico al padre nella fonetica carnale, in certe «o» e «a» cantate con inconfondibile vutata, nel tono se non nella corporeità che serve per impartire l’ordine tanto atteso: «Addenocchiate e vasame sti’mmane!». ‘O zappatore nun s’’a scorda ‘a mamma, si sa: Francesco «Zappatore» è stato svezzato a latte e sceneggiata e non dimentica, come potrebbe, nemmeno il papà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA