Leo Brandi, miseria e nobiltà
di quel «comico cafone»

Leo Brandi con Totò in "Miseria e nobiltà"
Leo Brandi con Totò in "Miseria e nobiltà"
di Federico Vacalebre
Domenica 18 Aprile 2021, 23:17 - Ultimo agg. 19 Aprile, 10:17
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Per il grande (?) pubblico Leo Brandi è, al massimo, il contadino analfabeta che dettava una lettera esilarante allo scrivano Totò in «Miseria e nobiltà» (1954, regia di Mario Mattioli). Per il regime fascista era un comico «attenzionato»: meglio evitare che prendesse in giro Mussolini al Salone Margherita. Quando emigrò, per gli americani divenne un credibile imitatore di Charlot. Per il pubblico del suo tempo era un premiato macchiettista, uno per cui Pisano e Cioffi scrivevano apposta o affidavano comunque il lancio dei loro pezzi («Donna Ama'», «L'hai voluto te», «Mazza, pezza e pizzo», «Agata», «Sequezia di Spezia», «Olga Fornacelli»), ma anche un attore di sceneggiata accanto ad Elvira Donnarumma e che i De Filippo avevano voluto nella loro Compagnia Napoletana e che poi aveva lavorato con Vittorio Viviani, un cantante e un cantautore che si era fatto applaudire in più d'una Piedigrotta, a suo agio in futuri classici come «A casciaforte», come nella misconosciuta «Sassofonatura» sulla tresca tra una giovane prosperosa e il suo insegnante di sax, o in «Che jazz m'accocchie» divisa con Luisella Viviani e Tina Castigliana.
Tutto questo, ma molto di più racconta Leo Brandi il comico cafone (edizioni Il Papavero, pagine 183, euro 15), scritto da Carlo Maria Todini, nipote e figlio d'arte, che ha seguito a suo modo le orme del nonno (Carlo Todini all'anagrafe) e padre (Stefano, anche lui in compagnia con Eduardo sin da giovanissimo, poi con Luisa Conte). Brandi, talento comico allo stato brado, popolare, «volgare» per il recensore de «Il Corriere della Sera» incapace di distinguere tra i frizzi e i lazzi di una comicità forte, non è stato un mattatore, ha calcato decine e decine di palcoscenici, conoscendo la lusinga degli applausi e lo squallore della polvere dei teatri. Nato il 24 giugno 1894, morì il 16 febbraio 1959. «Il Mattino» il giorno dopo scrisse: «La sua morte è, sotto molto aspetti, più di una perdita per il varietà napoletano: essa segna veramente la fine di un genere che ebbe a Napoli periodi floridissimi, quando si sapeva ridere, a teatro e nella vita». Un tono nostalgico, di quella nostalgia canaglia che accompagna sin troppo l'epica minore del varietà, dell'avanspettacolo, del cafè chantant, della sceneggiata. Forse inevitabile, forse no, visto che il racconto della carriera di Todini è un'immersione vivace in un piccolo mondo antico ma vitalissimo, in una Napoli che non era già più capitale di cultura e spettacolo, ma non era neanche ancora diventata periferia e, soprattutto, continuava a dettare legge in fatto di teatro e di canzone.
Todini, con le memorie familiari, i ritagli di giornali, le locandine e le fotografie che arricchiscono il libro, le interviste a chi ha ancora memorie di prima mano (o quasi), evoca nomi famosi e altri ormai dimenticati, impegnandosi perché rimanga, almeno ancora per un po', impresso quello del nonno. Ecco, allora, nel titolo, l'orgoglio per quel comico cafone che dettava la lettera al principe De Curtis, facendogli da spalla per un assolo sublime. Un ruolo piccolo, eppure rimasto nell'immaginario di più generazioni, magari senza conoscere il nome di quel comprimario di lusso: «Ma come si chiama quello vicino a Totò?». Si chiamava Leo Brandi, e Carlo Maria Todini, suo nipote, ce lo ricorda perché, almeno ai più volenterosi, la memoria non vacilli.
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