Il «Macbeth» di Luca Salsi: «Vittima dell'amore»

«Amo moltissimo Napoli e il teatro di San Carlo»

Il «Macbeth» di Luca Salsi: «Vittima dell'amore»
di Donatella Longobardi
Domenica 5 Marzo 2023, 17:00 - Ultimo agg. 6 Marzo, 18:29
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Baritono verdiano per eccellenza e nato in provincia di Parma, dunque in terre verdiane. Luca Salsi è oggi uno dei Macbeth più richiesti dai grandi teatri anche prima che la Scala lo chiamasse ad inaugurare la stagione '21 con questo ruolo. «Sì, Macbeth è il mio cavallo di battaglia, ne ho cantate circa cento recite in diciotto produzioni diverse, cinque delle quali dirette da Riccardo Muti, che è il mio 'padre' musicale. E ho cantato due volte anche la prima edizione....». Sarà lui, dunque, il protagonista dell'opera di Verdi in programma dal 9 marzo (ore 20) per quattro recite fino al 18 marzo al teatro Politeama di Napoli dov'è spostata la stagione del San Carlo chiuso per lavori. Opera in forma di concerto, come costringe la location, con Marco Armiliato sul podio e, nel cast, la Lady Macbeth di Sondra Radvanovsky, Alexander Vinogradov come Banco, Giulio Pelligra-Macduff, Francesco Castoro- Malcolm.

E dunque, Salsi, com'è il suo Macbeth?
«Non è un cattivo.

Né un perfido. Va inquadrato nella storia e nel suo tempo. E' un personaggio rude, feroce, perché è un guerriero nella Scozia medioevale. Chi ha la vena perfida è lei, la moglie, assetata di potere. Compie l'atto di uccidere il re perché lei glielo chiede. E dopo impazzisce».

Insomma, lui è vittima della donna.
«Si potrebbe dire che è vittima dell'amore, ma Macbeth non sa cosa sia l'amore. Si trova travolto in un vortice di violenza fino al delirio, precipita nella dissoluzione morale e finisce con l'essere ossessionato da visioni di streghe e fantasmi e da un terribile senso di vuoto».

Ma come si rende tutto questo in teatro senza scene né costumi?
«Una delle produzioni più belle che ho fatto recentemente a Vienna era con una scena completamente vuota, e funzionava benissimo. Stranamente Macbeth è un'opera che si presta ad essere proposta in forma di concerto: la musica è bellissima e non c'è un attimo di noia. Il difficile è fare quel che vuole Verdi in questo testo».

Cosa intende?
«L'opera è così ben scritta dal punto di vista musicale e drammaturgico che serve solo seguire le indicazioni dell'autore al millimetro per ottenere una buona interpretazione, ma non è così semplice».

Facciamo un esempio?
«Nel terzo atto quando compare il fantasma del fanciullo col serto del re, Verdi scrive: “quasi parlato” poi “ppp”, tre volte "p". Subito dopo “diminuendo sottovoce” e 4 "p". Io ci provo a farlo coi rischi del caso, perché c'è chi dice che non sente nulla o che critica e non distingue le note... ma è scritto così. Lo stesso Verdi, poi, in una lettera a Piave suggerisce che si segua "prima il poeta e poi l'autore", dando grande importanza alla parola».

Lei, comunque, si sente una voce verdiana?
«Non solo verdiana, anche se interpreto abitualmente tutti i suoi grandi personaggi affidati alla voce di baritono, da Rigoletto a Germont e a Jago che farò prossimamente al Maggio Fiorentino nell'"Otello" diretto da Zubin Mehta. Ma prima debutto in "Tabarro" all'Opera di Roma, un titolo pucciniano molto raro. Questo, comunque, è l'anno di Macbeth che canterò oltre che a Napoli anche a Berlino. E ho appena concluso le repliche di un altro Macbeth a Barcellona, sempre con la Radvanovsky».

Lei proprio con la soprano statunitense era stato nel '201 a Napoli per una edizione del «Pirata» di Bellini registrata e mandata in streaming in piena pandemia. Poi è tornato in piazza del Plebiscito per un «Trovatore» con la Netrebko. Che rapporto ha con Napoli e il San Carlo?
«Amo moltissimo la città e il teatro, vi debuttai ventidue anni fa all'inizio di carriera con un "Barbiere di Siviglia", ricordo anche un "Gianni Schicchi" nel 2007 con la regia di Roberto De Simone. E, più recentemente, "Un ballo in maschera" nel '19. Cantare in una sala così bella è un valore aggiunto a qualsiasi performance, i napoletani sono abituati molto bene. Ma ritengo che quella del San Carlo sia una platea rischiosa, non meno di quella del Regio di Parma”.

In che senso, maestro?
“Il fatto è che i napoletani cantano tutti. Davvero. La musica è nel dna, nel cuore di ogni persona nata sotto il Vesuvio tanto che anche chi non frequenta molto la lirica ha una straordinaria musicalità. Ecco. Cantare in un contesto così non è facile. Bisogna, se possibile, dare di più. Arrivare al cuore, riuscire a offrire a chi ascolta emozione e sentimento, altrimenti non ha senso”.

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