Marina Abramovic è Maria Callas, storia d'amore e di morte al Teatro San Carlo di Napoli

Marina Abramovic è Maria Callas, storia d'amore e di morte al Teatro San Carlo di Napoli
di Stefano Valanzuolo
Sabato 14 Maggio 2022, 08:00 - Ultimo agg. 15 Maggio, 08:22
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«7 deaths of Maria Callas», di e con Marina Abramovic, andato in scena ieri pomeriggio al San Carlo in prima italiana (tre repliche ancora, tra oggi e domani), ha tutti i requisiti del prodotto teatrale à la page. È trasversale nell'impiego dei linguaggi, anzi è multimediale, per usare un termine in voga. È pop, nelle forme e nei colori. E poi, celebra un mito moderno (la Callas, si capisce), citando pagine d'opera immortali, coinvolgendo un famoso attore di cinema, sfoggiando costumi sontuosi. Essenziale o barocco, a seconda dei punti di vista, con venature radical-chic, risulta trasgressivo, senza esagerare. Nel senso che di dirompente non ha nulla: nelle pieghe del testo originale (appunti minuziosi e talora un po' leziosi scanditi dalla voce di Abramovic) e nel gioco di richiami al melodramma cerca e trova, infatti, appigli rassicuranti. Il prodotto travalica certo gli schemi della narrazione cui il teatro d'opera ci ha abituati, senza risultare né irrispettoso né poco plausibile ma semplicemente «altro», lasciando al pubblico l'illusione tonificante della scoperta. Al resto, provvede Abramovic con la sua presenza ieratica: quando, alla fine dello spettacolo, invita ogni spettatore a posare la mano sulla spalla del vicino, a chiudere gli occhi e a rivolgere il pensiero alla gente d'Ucraina ottiene un silenzio devoto. Significa molto.

Si può scegliere di analizzare «7 deaths» nelle singole componenti, ma è la sequenza delle parti, per quanto prevedibile qualche volta, a conferire un senso all'operazione. A sette cantanti brave e affidabili la scrittura sottopone il compito di impersonare altrettante eroine d'opera sfortunate (cioè condannate a morte dai propri libretti) colte nel momento dell'aria fatale. Dal lotto corposo svettano Jessica Pratt (Lucia), quindi Nino Machaidze (Desdemona) e Kristine Opolaisb (Cio-Cio San), ma ognuna delle primedonne - che poi diventeranno figuranti, nel prosieguo dello spettacolo, al servizio della Abramovic/Callas fornisce un apporto efficace per attinenza al ruolo e volumi messi in campo. Sono Selene Zanetti (Violetta), Roberta Mantegna (Norma), Valeria Sepe (Tosca) e Annalisa Stroppa (Carmen). Il racconto video in episodi che compone il film di una morte cento volte esibita in scena dalla Callas - prima dell'epilogo reale, intimo e irreparabile tocca corde tragiche, patetiche o persino grottesche, disegnando uno scenario di inquietudine prima ancora che di orrore, dove la violenza di genere non è solo allusione. Abramovic dà volto sullo schermo alle sette creature callasiane, Willem Dafoe è ora carnefice, ora alter ego, ora interlocutore inerme (e uniformemente espressivo) della protagonista. Le scelte registiche e narrative aspirano ad un'originalità che qualche volta è meno evidente di quanto sembri (la Butterfly nucleare ha un precursore ineludibile in Ken Russell), altrove sfiora per scelta l'eccesso (pensiamo ai due serpenti che strangolano Desdemona), spesso è stimolante (la Norma en travesti sale sul rogo con Pollione). Le arie dal vivo, assodata la bravura delle interpreti, diventano colonna sonora di un racconto per immagini tutto in slow motion, in un videoclip d'autore che quasi rimanda ad esperimenti anni Ottanta (qualcuno ricorda il film «Aria»?). Del resto, all'orchestra (quella del San Carlo, naturalmente) non sembrano richiedere sforzi di audacia né il giovane direttore Yoel Gamzou né le stesse musiche di scena composte da Marko Nikodijevic, coautore dello spettacolo.

Queste ultime, semmai, rispondono all'esigenza di riempire in sensurround gli spazi drammaturgici, supportate dall'uso dell'elettronica con inserti corali. Musiche d'atmosfera, insomma, funzionali soprattutto. 

Video

Quando la storia delle sette protagoniste e delle loro morti smette di essere cantata e agita sullo schermo, la donna che per tutto quel tempo è rimasta immobile, a letto, defilata in scena, si alza per la recita definitiva, indossando un abito di lamé (i costumi, belli, sono di Riccardo Tisci). Quella donna è la Callas, ovviamente, che Abramovic scolpisce in una gestualità quasi solenne, misurata nei tempi fino a rischiare la lentezza, straniante ma teatrale. Il finale è l'unico momento dello spettacolo in cui la voce della «divina» si ascolti davvero: giunge magari scontato, ma emoziona per forza. La scena ultima ricostruisce l'appartamento parigino della Callas minuziosamente, con cura dei dettagli assolutamente non casuale, con riferimenti simbolici al limite del feticismo. L'atto di amore di Abramovic nei confronti della donna e diva amatissima è reso con una consapevolezza d'artista che non teme il protagonismo spinto e, anche per questo, fa breccia sullo spettatore, specialmente su quello meno addentro alle segrete cose della lirica. Successo caloroso alla prima rappresentazione di ieri pomeriggio. 

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