Le storie di Piera degli Esposti, ribelle della scena

Le storie di Piera degli Esposti, ribelle della scena
di Luciano Giannini
Lunedì 16 Agosto 2021, 08:22 - Ultimo agg. 18:27
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«Interpretavo Molly Bloom. Eduardo mi vide e commentò: Nun m'è parente, non sono il suo impresario, ma chesta è o verbo nuovo». Attrice totale e curiosa, onnivora, anomala, vocata alla sperimentazione, sostenuta da una voce di insolita duttilità; così talentuosa da vantare una formazione sul campo, «fatta con le donne» e non nelle accademie. Personalità volitiva e spregiudicata, ribelle, eccentrica, appassionata, d'entusiasmo e sorriso contagiosi. Della sua Bologna possedeva la vitalità intrigante, intelligente, positiva. Piera degli Esposti è morta ieri a Roma per problemi cardiaci e complicazioni polmonari sorti dopo una lunga malattia. Era ricoverata dal primo giugno al Santo Spirito. Aveva 83 anni.

Piera ha segnato parte del Novecento nel teatro, a cinema, in tv. È stata attrice, regista, scrittrice, poetessa. Alcune sue frasi la svelano: «Non ho mai voluto crescere, ho scelto di restare bambina»; «il dolore che mi ha abitato io non lo nascondo, e questo suscita commozione»; «il successo nella vita è bruciare sempre di continua passione, mantenendo quest'estasi». Già! Il dolore: quello germogliato da una famiglia inquieta: un fratello più piccolo, due fratellastri; padre sindacalista; madre segretaria ma, soprattutto, affetta da una ninfomania che la portò in manicomio, senza impedire la complicità con la figlia. Piera così la ricordò in una intervista: «L'estate per me era il suo sguardo, si svegliava dal letargo già bruciante di caldo e io avevo paura perché scatenava molto disordine, caos, situazioni estreme. Mi impauriva e, però, aveva la bellezza del mare, in testa aveva le onde, amava gli uomini, faceva soffrire mio padre, esplodere lo scandalo...».

Nella «Storia di Piera», scritto a quattro mani con l'amica Dacia Maraini, la sua vita è narrata con la verità che appartiene alle creature del coraggio e dell'amore, che non hanno timore di nascondersi.

Un maestro come Marco Ferreri la trasformò in film. Lei lo ricambiò firmando due sue sceneggiature e amandolo: «Mi piaceva spiarlo mentre girava sulle dune di Sabaudia, lo desideravo in modo fisico e romantico. Mi erotizzava con quegli occhi, quella intelligenza, quel fisico da calzolaio». Il teatro la salvò. Al principio furono soltanto rifiuti: dell'Accademia d'arte drammatica, degli Stabili, ai provini per radio e tv: «Mi restava l'avanguardia. Con Gigi Proietti entrai al Teatro dei 101 di Roma, una sorta di garage». Pur di recitare, in «A dieci minuti da Buffalo» di Günter Grass accettò la parte di un marinaio, raccogliendo i capelli nel berretto. Giorgio De Chirico andò a complimentarsi: «Molto bravo», le disse. E lei: «Ma io sono una donna». E lui: «Bravo lo stesso». Il titolo che la rivelò al grande pubblico fu «Molly cara», monologo tratto dall'«Ulisse» di Joyce, regia di Ida Bassignano. Era il 1979. «Quel ruolo segnò la possibilità di essere me stessa in scena». Chi è rifiutato, alla fine, rifiuta. Accadde con due numi intoccabili: Carmelo Bene e Strehler. Il primo la corteggiava per averla nell'«Adelchi». Lei intuì il personaggio e scappò via: «Era di una crudeltà senza pari». L'altro? Piera si negò nel timore di perdere il proprio stile di recitazione. Il regista non la perdonò e dette istruzioni che nelle occasioni pubbliche mai la facessero sedere accanto a lui. Pasolini la volle in un piccolo ruolo nella sua «Medea» con la Callas. Piera: «Diceva che amava la mia faccia, perché non era da attrice. Ci misi un po' a capire che era un complimento».

Piera passava con abilità e disinvoltura dalla tragedia greca ad Achille Campanile: «È più arduo far ridere che interpretare Clitemnestra». Col suo mentore, Antonio Calenda, recitò Boris Vian, Grass, Genet, Toller, in «Operetta» di Gombrowitz e in «Orestea»; accettò la sfida del Viviani della «Musica dei ciechi», «Madre Coraggio» di Brecht, «Prometeo» di Eschilo» ed «Edipo a Colono» di Cappuccio; fino a «Una indimenticabile serata», da Campanile. Con Cobelli si mise alla prova in D'Annunzio, Goldoni e Shakespeare; con Castri in «Rosmersholm» di Ibsen. Con Sequi in «Berenice» di Racine e «Alcesti» di Euripide. Nella lirica firmò le regie della «Lodoletta» di Mascagni, della «Notte di un nevrastenico» di Rota, della «Voce umana» di Poulenc. In carriera vanta una quarantina di film, diretta dai Taviani in «Sotto il segno dello scorpione»; da Moretti in «Sogni d'oro»; da Ferreri nel «Futuro è donna» (l'altra sua sceneggiatura); dalla Wertmüller e da Bellocchio, guadagnando un David per «L'ora di religione». Poi, Castellani in «Questi fantasmi!»; Tornatore nella «Sconosciuta»; e come segretaria di Andreotti nel «Divo» di Sorrentino (altro David).

Amava il cinema. Nell'«Estate di Piera», giallo politico scritto con Gianpaolo Simi, concretò in letteratura la passione per Hitchcock e il desiderio di interpretare un commissario. In tv approdò nel '66 con una piccola parte nel «Conte di Montecristo» e si affermò nel «Circolo Pickwick». Mai sposata, amò molti uomini, spesso più giovani di lei. Negli ultimi tempi ironizzava: «Faccio l'aerosol più che l'amore», anche se ho tante fantasie. Senza non ci so stare. Sono cresciuta nell'amore, guardando mia madre che ascoltava le love stories anche quando non erano sue».

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