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Roberto De Simone: quel requiem per Pasolini nato in un sogno

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Martedì 22 Febbraio 2022, 11:16
5 Minuti di Lettura

«Adulto? Mai- come l'esistenza/ che non matura- resta sempre acerba/ di splendidi giorni in splendidi giorni/ io non posso che restare fedele/ alla stupenda monotonia del mistero..../ Pari, sempre pari con l'inespresso,/ all'origine di quello che io sono»
(P.P. Pasolini, 1950)

Roberto De Simone

All'inizio degli anni Settanta, quando a Napoli insegnavo Musica e Teatro all'Accademia di Belle Arti, con il collega Mimmo Iodice che occupava la cattedra di Fotografia, compii un ciclo di ricerche antropologiche sulle feste popolari in Campania, secondo un metodo strutturalistico derivato dalle teorie di Georges Dumézil sviluppate da Claude Lévi Strauss. Io documentavo i suoni con un modestissimo registratore a cassette ed egli scattava pregevoli e magistrali immagini, entrambi seguendo il progetto comune di agire sul campo ed in modo sincronico alla manifestazione festiva. Mimmo produceva immagini con superlativi strumenti tecnici fissando momenti irripetibili, allo scopo allora non perseguito di mettere in luce la religiosità popolare come secolare motore orale che animava i riti, i linguaggi e le feste stesse.

APPROFONDIMENTI
Centenario della nascita di Pasolini,
doppio appuntamento a Napoli

Di qui il mio provocatorio titolo del volume: Chi è devoto, allora in via di pubblicazione, per il quale riuscimmo ad ottenere la prestigiosa e convinta introduzione di Carlo Levi, che condivise il progetto, il rigore col quale era stato realizzato e la superba estetica delle immagini. Dopo la presentazione pubblica, fu proprio Carlo Levi a mandarne una copia a Pasolini, che mi espresse lusinghieri apprezzamenti riferitemi, e che mi telefonò con sincera e timida cordialità, dichiarandomi che avrebbe gradito di farmi una visita nel prossimo mese di novembre insieme con Mimmo Iodice e approfondire gli argomenti di motivazione all'opera che a suo dire lo avevano come folgorato sulla realtà palese degli elementi. Invece trascorse quel luttuoso 2 novembre, e trascorsero ancora dieci anni, quando, divenuto direttore del Teatro di San Carlo, nel 1985 mi recavo all'Opera di Monaco in cui allestire la regina del Macbeth di Verdi diretto da Riccardo Muti con le scene e i costumi di Giacomo Manzù.

All'Aeroporto restai certamente impressionato dal passaggio dai voli nazionali a quelli internazionali. Fu quella notte che lo sognai nella sala di aspetto, con impermeabile chiaro color latte, egli, Pier Paolo, mi venne incontro ad incontrarmi per un mai avvenuto appuntamento. Impossibile ricordare ciò che ci unisce, ma la parola che ritenni e tuttora ritengo fu «... Inutile... inutilità...». Mi svegliai con inquietudine. Di recente, nel 1985, avevo acquistato del poeta una raccolta antologica intitolata Una vita futura e ripercorsi mentalmente i versi:

«Poiché il mondo non è più necessario/ a me, io non sono più necessario».
Nell'accavallarsi dei pensieri quell'anno avevo ricevuto dal presidente dell'Azienda di Cura e Soggiorno del Turismo la commissione di preparare un concerto natalizio da eseguire nella chiesa di San Lorenzo Maggiore presso San Gregorio Armeno. Ma sì, era certamente così: avrei composto una Messa di Requiem per i dieci anni dalla morte del mitico autore e regista cinematografico. Non era stato lui stesso a chiedermelo con l'impermeabile? Ripassai in rassegna tutti i Requiem della Storia della Musica, escludendone quello di Verdi, stilisticamente troppo melodrammatico e poco atto alla religiosità rituale, e mi si presentarono subito la Missa defunctorum di Palestrina, la Missa Papae Marcelli dello stesso, il Dies Irae della irrinunciabile Sequenza gregoriana.

Al mio ritorno a Napoli mi misi subito all'opera e scrissi di getto il Requiem, predisponendo la scrittura a una complessa struttura di orchestra sinfonica di sostegno a un coro d'accademia, di un secondo coro di vocalisti di stile orale, di un coro di voci bianche. L'esecuzione avrebbe compreso un solista vocale accompagnato da complesso musicale di stile rock, una cantante contralto di impostazione vocalistica, un cantante sopranista o mezzosopranista dotato di suoni distinti nei registri di passaggio tra le zone dei bassi, dei centri e degli acuti. Fu un'impresa spericolata ma assolutamente nuova e mai praticata nella Storia della Musica. Raggiunsi il più soddisfacente risultato nel Libera Me Domine in cui posi in contrappunto di basso continuo a sostegno di una melodia barocca, due tetracordi di stile orale: uno ascendente minore armonico e un altro discendente di ambito minore melogico. Nel Dies Irae sul tema melodico eseguito liberamente, articolai un veloce ritmo ostinato in sette ottavi, con esiti sorprendenti e disposti a forme musicali e polimodali mai percorsi da compositori. Mi parve, insomma, perlomeno di avere scandagliato le profonde e insaziate ansie pasoliniane di sperimentare i misteri della morte, dei miti e delle pulsioni sessuali.

L'esecuzione a San Lorenzo Maggiore registrò in tutte le repliche un affollato concorso di pubblico, tra cui l'inaspettata presenza del cardinale Corrado Ursi. All'ultima replica, sotto una pioggia scrosciante, fu memorabile vedere gli intervenuti, che non trovando posto in chiesa, restarono in ascolto fuori le porte spalancate del tempio, sotto gli ombrelli. Parecchi indossavano impermeabili trasparenti ma anche chiari color latte. L'Amen finale del Requiem non fu per me un termine, ma seguitò a stimolarmi con un interrogativo e una ulteriore ricerca che Pasolini stesso mi aveva contagiato. Era egli stesso dotato del dono della veggenza profetica e ne era consapevole, senza sapere come comunicarlo a una società consumistica di massa? Rileggo i suoi versi
«La morte non è/ nel non poter comunicare/ ma nel non poter più essere compresi».

Infine: «Si è detto che ho tre idoli: Cristo, Marx, Freud. In realtà il mio idolo è la REALTÀ. Se ho scelto di essere cineasta allo stesso tempo che scrittore, ciò è dovuto al fatto che piuttosto che esprimere questa realtà attraverso quei simboli che sono le parole ho preferito il cinema come mezzo di espressione: esprimere la realtà attraverso la realtà». Insomma sì egli era un ispirato profeta, sapendo di saperlo. In Petrolio egli urla letterariamente tale potere come realtà conquistata del suo scrivere. Del suo rapporto con Napoli egli, come «assistito», avrebbe indicato un sicuro ambo popolare, da stampare sulle magliette dei giovani: 629 sul retro, come Totò, tra Cabala, letteratura «a prescindere», e Parlesia, e sul davanti, sempre sulle adolescenziali magliette, 190: «Lo Ngrì».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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