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San Carlo, un Verdi extralarge tra quei fantasmi senza tempo

Inaugurata con successo la stagione 2022/2023

di Stefano Valanzuolo
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 30 Novembre 2022, 08:33
4 Minuti di Lettura

Che quella andata in scena ieri sera al San Carlo, primo capitolo della nuova stagione d'opera, fosse la versione del «Don Carlo» più cara a Verdi (1886, in cinque atti) significa qualcosa. Rappresenta, infatti, una sorta di teorema teatrale della compiutezza e che l'autore vi fosse pervenuto in esito ad un percorso costellato da traduzioni, tagli, ripensamenti e pentimenti non offre scorie, alla visione e all'ascolto, ma lampi di saggezza.

APPROFONDIMENTI
Teatro San Carlo, «Don Carlo» riprogrammato oggi
«Don Carlo» al San Carlo di Napoli; il Grande Inquisitore tra le note di Verdi

Lo spettacolo nuovo presentato dal San Carlo con la regia di Claus Guth e la direzione musicale di Juraj Valcuha, solide l'una e l'altra, risponde all'esigenza di non scindere le componenti di quella creazione trasversale intitolata «Don Carlo» e di offrire alla platea un prodotto che per tensione e continuità viaggi su un'unica lunghezza d'onda comunicabile. In questo modo, le «divine lunghezze» verdiane (quattro ore e cinquanta di cui tre ore e venti di musica) diventano non soltanto sostenibili ma necessarie a esprimere coerenza nel tratto narrativo e pienezza drammaturgica.

Guth rilegge «Don Carlo» in termini di affresco storico, ma non confina la vicenda, i suoi sottintesi, i rapporti tra le figure che la compongono entro una gabbia temporale e geografica assodata e inequivocabile. Alle due dimensioni dell'affresco, così, la regia aggiunge il senso assai musicale della profondità, attraversando luoghi ed epoche diverse con suadente disinvoltura, sfruttando e integrando codici espressivi non univoci (i video di Roland Horvath, quasi dei leit motiv per immagini, supportano l'azione dal vivo), affidando a un incursore dispettoso e incombente che sembra uscito da un quadro il ruolo di fil rouge narrativo, crudele burattinaio ai cui cenni tutti diventano pedine (la drammaturgia aggiunta è di Yvonne Gebauer). Il rischio che un'idea registica siffatta scaturisca concettuale e astratta sarebbe alto se Guth non ricorresse al tratto allusivo, preferendo l'evocazione - di situazioni e sentimenti - alla citazione, in ciò supportato dalle scene essenziali di Etienne Pluss e i costumi di Petra Reinhardt. Entrambe le componenti si concedono, su uno sfondo grigio che è mood dell'animo piuttosto che escamotage pittorico, divagazioni sul tema fatidico del potere, alternando abiti di foggia classica alla freddezza dei panni per esempio di un Grande Inquisitore non più visto come espressione della chiesa né di una prepotenza antica, ma di un potere soggiogante arido e senza tempo. Efficace il disegno luci di Olaf Freese.

Impressi sulla proiezione soffocante di un tormento indefinito, i molti colori verdiani trovano in Juraj Valcuha un interprete in grado di cercarli, sottolinearli e dare loro una sostanza orchestrale, o discrezione e buon gusto. La tendenza assidua a ricavare un suono connotante in funzione espressiva è da sempre punto di forza nello stile del direttore musicale in carica del San Carlo. Non c'è un dettaglio, nel racconto verdiano, che sia lasciato al caso: non nel fraseggio, non nella tensione legata alla resa, sottratta allo stereotipo romantico, non nel supporto prestato ai cantanti. La sinergia tra la parte visiva e quella sinfonica, allora, appare corroborante, e la scelta di evitare dinamiche musicali estreme e scatti repentini, lungi dal denotare carenza di audacia, concorre a tracciare un clima teatrale che è proprio dello spettacolo descritto. L'orchestra del San Carlo, accudita fino in fondo da Valcuha (per l'ultima volta, e c'è a chi la cosa dispiace) tira fuori una prova di spessore e vari frangenti di bel suono. Il coro, preparato da Josè Luis Basso, si innesta bene, non solo vocalmente, nel clima proficuo della serata.

Il resto, e non è affatto poco, in «Don Carlo» lo fanno le voci: importanti, quelle ascoltate ieri. A cominciare da Elina Garana, applaudita con speciale calore non per via della parte (ché Eboli non è la protagonista) ma della resa scenica e della padronanza della parte musicale, sontuose tutt'e due. Matthew Polenzani, in linea con la visione di questo «Don Carlo», dà al ruolo del titolo l'ingenua spavalderia che gli compete, non senza grazia. Michele Pertusi è, ormai, un Filippo II di riferimento: rigoroso nella cura della frase, presente senza essere prepotente.

Il Posa tratteggiato da Ludovic Tézier risulta generalmente brillante, all'occorrenza morbido o ambiguo, netto nella dizione. Alexander Tsymbalyuk emerge con onore dal cimento con un ruolo fatidico quale quello del Grande Inquisitore: ha volume in abbondanza, spessore drammatico e qualche eccesso da limare in un quadro di interesse incontestabile. La Elisabetta di Aylin Perez è diligente, delicata nel portamento, aggraziata nel colore, gradevole negli acuti, peccato non riempia sempre la zona centrale. Merita un cenno il Tebaldo di Cassandre Berthon.

Il successo pieno finale contribuisce a rendere speciale questa prima, resa un po' meno fastosa, comprensibilmente, dai fatti recenti di cronaca: ma uno spettacolo teatrale non è un caso mondano. Si replica fino al 6 dicembre.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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