Teatri (meno) Uniti: si cambia pagina

Teatri (meno) Uniti: si cambia pagina
di Luciano Giannini
Martedì 13 Settembre 2022, 11:48
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Cosa accade al dream team della scena napoletana? Teatri Uniti, la prestigiosa cooperativa di produzione che nel 1987 unì sogni, speranze, progetti di alcuni giovani di grande talento - Toni Servillo, Mario Martone, il compianto Antonio Neiwiller - non ha presentato le abituali domande per ottenere i contributi annuali dal ministero (circa 340.000 euro) e dalla Regione Campania (circa 70.000) necessari per l'attività delle compagnie. Fine corsa? Una mutazione genetica? In ogni caso una svolta storica, magari verso nuove forme e natura giuridico-amministrativa.

Nell'ambiente teatrale campano, e non solo, non si parla d'altro, ma nessuno, per il momento, fa trapelare indiscrezioni; segno che una riflessione profonda è in corso tra i suoi soci: Toni Servillo, Angelo Curti, Andrea Renzi, Licia Maglietta, Roberto De Francesco, Pasquale Mari, Daghi Rondanini, Costanza Boccardi (Martone andò via nel '99 per dirigere il Teatro di Roma). Intanto, le produzioni in cantiere seguono il loro corso e giungono via via a compimento. Più o meno a fine ottobre, per esempio, dovrebbe uscire il film «Santa Lucia», dell'esordiente Marco Chiappetta, con Renato Carpentieri e Andrea Renzi; questa estate ha girato in numerose piazze «PPP 3%», omaggio a Pasolini con Anna Bonaiuto e Saponaro in regia; e altre si concreteranno nei mesi venturi.

La notizia, comunque, è certa e sollecita il dibattito sullo stato di salute del teatro, in particolare quello che si crea a Napoli, che ne è la capitale. È ancora fresca, nella memoria, l'impressione offerta da «Trent'anni uniti», la mostra allestita nel giugno 2018 a Palazzo Reale. Le sue diverse sezioni (a testimoniare l'anima plurale del gruppo) illuminavano tre decenni di lavoro - tra successi, sperimentazioni, e anche progetti mai realizzati - compiuto da artisti e tecnici avvinti dalla comune vocazione in una esemplare famiglia culturale, animata, oltre che dai soci, da personaggi eterogenei come Paolo Sorrentino, Enzo Moscato, Francesco Saponaro, Toni Laudadio, Enrico Ianniello, Anna Bonaiuto, Marco D'Amore, Andrea De Rosa; e da spettacoli che hanno lasciato un segno.

Da quelli di Servillo («Le voci di dentro», «Trilogia della villeggiatura», «Elvira»...) a «Rasoi», «I sette contro Tebe», «Titanic.

The end» e «Magic people show», «Chiove», «Delirio amoroso», «Il servo»... In questi e altri titoli la «famiglia» è rimasta fedele alla visione sintetizzata nelle parole scelte per definirla: creare un «laboratorio permanente per la produzione e lo studio dell'arte scenica contemporanea, intrecciando in maniera innovativa il linguaggio propriamente teatrale con quello della musica, delle arti visive, del cinema e dei nuovi media».



Perché, dunque, la decisione di rinunciare ai contributi? Perché il successo dei singoli e soprattutto il maggior impegno di Servillo nel cinema depotenzia il collettivo? Perché senza avere un teatro a disposizione non si riescono a far quadrare i conti e i progetti? Perché raggiungere gli obiettivi ministeriali a fronte dei contributi ricevuti diventa sempre più complicato? Perché i tempi cambiano e quella visione non corrisponde più al mondo d'oggi? Perché è mutato il modo di fare cinema e sulle ceneri del cinematografo è nato l'audiovisivo? Perché la società si trasforma, eppure il teatro resta vecchio e, tranne eccezioni, non sa ancora bene dove andare? Perché il Covid ha modificato persone, relazioni, costi, approccio all'arte, modelli e metodi di lavoro? Perché, come dice ancora Servillo nel documentario «Il teatro al lavoro» (sul suo «Elvira») «non ce la facciamo più a spiegare a un attore come debba recitare»? E, al riguardo, proprio «Elvira», atto d'amore per un teatro (e un attore) sempre più rari, nasconde qualche profonda verità. Per tutte queste ragioni il marchio, che nacque mirando a una rifondazione del teatro, decide oggi di rifondare se stesso. Nell'imminente futuro, per esempio, Teatri Uniti si appoggerà sempre più ad altre istituzioni, come Casa del Contemporaneo, anch'esso un collettivo piuttosto libero e duttile.

E qui, forse, si intravede un domani possibile, fondato su un core-business differente: quello di una «famiglia» fluida, non più soggetta a gabbie giuridico-amministrative e a rigidi vincoli ministeriali, ancora più libera di quanto mai sia stata. Del marchio storico, ammesso che in futuro sia destinato a sparire, resterà, in chi ne ha edificato la storia illustre, il tatuaggio culturale inciso nei cuori, nell'arte; e la voglia, questa sì, di lavorare ancora insieme. Come, non si sa.

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