Alessandra De Stefano: «Io direttrice di Rai Sport ho imparato dalla strada con il ciclismo»

«Il ricordo più antico? Italia-Germania 4-3»

Alessandra De Stefano: «Io direttrice di Rai Sport ho imparato dalla strada con il ciclismo»
di Angelo Carotenuto
Domenica 20 Novembre 2022, 08:14 - Ultimo agg. 19:56
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Nella stanza della direttrice di Rai Sport, c'è un pezzo di Gianni Mura alle pareti e alcuni dorsali, i numeri che i ciclisti portano dietro la schiena. Di schiena c'è pure Maradona su un poster, e poi le foto di Muhammad Ali e Ayrton Senna, i campioni che Alessandra De Stefano chiama punti cardinali, a poche ore dai Mondiali di calcio che da oggi la Rai trasmette in esclusiva. «Rispetto a quando sono arrivata, ho aggiunto solo la foto di Marco Pantani».

Com'era la sua stanza di allora?
«Non ce l'avevo, e neanche un computer.

Chi era senza contratto, non poteva neppure sedersi a una scrivania. Avevo studiato storia dell'arte all'università. Il mio sogno era entrare all'istituto San Michele, 25 posti, il 20% agli stranieri. In totale leggerezza andai a informarmi sulle selezioni, gli studenti che uscivano da una sessione d'esame mi spiegarono che la prova consisteva nel ricopiare la Madonna della Seggiola di Raffaello. Sono scappata. Non so disegnare neanche un piede, faccio dei cani inguardabili e da bambina coloravo gli alberi di blu. La maestra li strappava. Ma l'amore per l'arte al Tour mi ha fatto raccontare la storia della Gioconda, il circo dove aveva lavorato Fellini, l'opera di Rose Valland per salvare i quadri in guerra».

Cos'ha la Francia in più e in meno di noi?
«Ha più civismo, una fretta di crescere che a noi manca, un sistema fiscale che restituisce anche 80 centesimi se ha sbagliato. Non hanno la spazzatura in strada, non hanno la nostra ironia, la capacità di prendersi in giro che va oltre il nazionalismo. Sono forse meno rapidi e intraprendenti, ma in Francia non ti senti mai solo».

Com'è stato dedicarsi allo sport?
«Alla strada, più che allo sport. È un posto dove col ciclismo si impara la logica del branco, la generosità, la cattiveria, il veleno, la gioia. C'è tutto. Se potessi, renderei obbligatorio un Giro per chi vuol diventare giornalista. Sviluppa una capacità di guardare che non si impara leggendo il Tg».

Non è retorica, allora, il ciclismo letterario?
«Non lo è. Un giorno col Giro ero a Polignano. Avevo bisogno di un bagno, era tutto chiuso. Passo davanti alla casa di una signora, mi riconosce, mi chiama, dice: entra, non ti far problemi. Ne approfitto. Entro e vedo due piedi che sbucano da un letto. Ah sì, fa lei, non aver paura: è morto. Solo col ciclismo succede. Seguire il Tour con Gianni Mura ti dà una struttura, non badi alle situazioni impossibili. Quando vinse Nibali, ho scritto il pezzo sul cartone delle cassette beta».

E come segue il ciclismo chi soffre la macchina?
«Non ci ho mai pensato. Io mi sono sempre seduta dietro, a destra, in Francia dicono dal lato del morto. Leggevo e scrivevo. Certo, quando scendi dall'Alpe d'Huez, con la carovana che va giù, e le moto, in strada capita di fare cose assurde. Si potrebbe raccontare dal treno, un Giro, no?».

E un Mondiale senza l'Italia?
«Con entusiasmo, anche se l'Italia non c'è. È una Coppa particolare, non ce lo nascondiamo. Galeano si definiva un mendicante di bellezza, non gli importava da dove venisse. Di Pelé non parli solo con i brasiliani. Quando verrà il Ct Mancini al Circolo dei Mondiali, gli chiederemo cos'è successo tra l'Europeo di Londra e l'eliminazione a Palermo. Sarebbe bello se i calciatori si mettessero in gioco con un'operazione simpatia. In passato i giornalisti erano duri con i campioni, oggi mi pare una libertà che si prendono meno. Ma i calciatori dovrebbero guardarsi intorno e restituire qualcosa a chi li segue».

La Rai è tradizione o deve innovare?
«Tutt'e due. Introdurre una novità non è facile. Cambiare implica una dedizione, capacità di spiegare i no. Ho voluto uno studio per metà reale e per metà virtuale. Mia madre diceva: ruba con gli occhi. La Rai è la tv pubblica che in Europa offre più sport. La Davis ha fatto cambiare i palinsesti. È un segno di modernità. Sostituire una fiction con il tennis è audacia».

Pier Silvio Berlusconi è stato critico. Anche Fiorello polemizza. Avete speso troppo?
«Non sta a me dirlo. So che la Rai non poteva fare altrimenti, quando a marzo l'Italia è stata eliminata. Se investi in un evento, non puoi svenderlo. È sulla tv pubblica che devono andare i Mondiali. Come le Olimpiadi. È una forma di generosità verso il Paese. Chi non ha la parabola e un abbonamento, quando lo può vedere Messi?».

TVE in Spagna ha trasmesso un reportage sui diritti umani in Qatar. La Rai?
«Avremo in studio Stefano Lampertico, direttore di Scarp de Tennis, il periodico della Caritas. Avremo l'ex maratoneta Lucilla Andreucci, di Libera, a parlare di legalità. Avremo Riccardo Noury di Amnesty. Non parlarne sarebbe come mettere la testa sotto la sabbia. Chi non sa, deve sapere. Sei anni fa, a Doha si correvano i Mondiali di ciclismo. Stavano costruendo gli stadi, vedevamo i migranti arrivare nei cantieri a bordo di bus senza luce. Lavoravano sospesi a 100 metri da terra senza protezioni. Non si può tacere che sono stati sfruttati, né che ci sono stati dei morti, anche se adesso son lacrime di coccodrillo. Bisognava pensarci prima di assegnarli. I Mondiali si faranno, e dei ragazzi morti non conosciamo nemmeno i nomi. Con Roberto Carulli, sei anni fa, entrammo in un cantiere a filmare tutto. Ci mandarono via e una macchina ci seguì per giorni».

Ci sono donne nella spedizione?
«Donatella Scarnati è al suo ultimo Mondiale. Doveva andare in pensione in agosto, l'azienda le ha dato la possibilità di restare: bello e giusto. Saranno 5 su 18».

Non le dicono che sono poche?
«Non dobbiamo essere ipocriti. Ho in organico 22 donne su 122. Forse raccontare lo sport interessa meno di prima, forse abbiamo bisogno di un ricambio generazionale. Nel 98 ero guardata come una extraterrestre. Sotto i 40 anni adesso ce ne sono due, zero sotto i 30. Ma c'è un equivoco. Il merito non ha genere. Non mi sento più realizzata se mi chiamano direttrice. Portiere o portiera è un dibattito inutile. Detesto le parole vuote. Sulle parole a me piace sedermi. Le quote rosa sono servite, adesso preferisco bravura e competenza. Per spiccare in un mestiere così, ci vogliono 10 anni. Esiste solo un genere. Il genere umano».

Il primo evento di sport che ricorda?
«Italia-Germania 4-3. In casa avevamo un busto di Gigi Riva in sughero. Scesi con mio padre a festeggiare. Avevo 4 anni e mezzo. Fu la prima volta che lo vidi felice, non sono state molte. Era stato prigioniero nelle Ardenne. Germania era una parola off, a casa non si poteva nominare. Lo ricordo abbracciato a mia madre mentre guardavano Ali-Foreman e i Mondiali di ciclismo a Goodwood».

Goodwood 82? Erano tifosi di Saronni?
«Di Saronni, non di Moser. Papà stava con i secondi. Quando vai alla Sanremo, sono loro da sentire al traguardo: i secondi sono più interessanti dei primi. Ho tifato Napoli per solidarietà con lui. Per fortuna ha visto Maradona. Ai Mondiali 86 mia sorella era incinta. Disse: l'Inghilterra non gioca male e venne cacciata fuori. La domenica i miei andavano a pranzo da lei e io prendevo possesso della camera. Guardavo Senna, segnavo i tempi dei suoi giri su dei quaderni. Ora la F1 non la guardo più».

C'è un motivo o capita?
«Ho smesso da quando ho visto il documentario di Kapadia, le immagini in cui Senna chiede giustizia. Se questo mondo ha chiuso gli occhi sulla morte di un altro pilota il giorno prima, per amore di Senna posso farne a meno. Ho la foto in ufficio, lo guardo lì».

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