Antonio Lubrano, 90 anni a Napoli: «Salvato dall'ironia, mi manca Procida»

Antonio Lubrano, 90 anni a Napoli: «Salvato dall'ironia, mi manca Procida»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 18 Febbraio 2022, 20:30
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Quando Angelo Guglielmi, storico direttore di Rai 3, gli propose di condurre una trasmissione intitolata Mi manda Lubrano, la sua prima risposta fu: Li mando io? E chi so' Picone? A me nun me sape nisciuno.... In apparenza uno show come tanti, con il pubblico ripreso dalle telecamere e il conduttore protagonista al centro dello studio. Ma la vera particolarità consisteva nella platea, assai variegata, di produttori e consumatori ai quali si rivolgeva. Scopo del programma? Metterli in guardia dagli imbrogli in agguato, dal cibo scaduto nei supermarket agli sprechi e alle inefficienze della pubblica amministrazione.

Avrebbe detto Lubrano: A questo punto una domanda sorge spontanea....
«Quale?».

Come ha festeggiato i suoi novant'anni?
«A cena con otto amici carissimi, non li vedevo dai mesi del lockdown».

Bella rimpatriata.
«All'età mia gli incontri sono già una rarità, il Covid ci ha messo il carico da 11 come si dice a briscola. Immaginate con quanta gioia ci siamo finalmente rivisti. Ma non è finita».

Si festeggia ancora?
«Un altro amico di vecchia data, grande appassionato di musica, vuole organizzare un brindisi pure a casa sua. Mi ha chiesto di invitare chi voglio, lui è pronto a suonare».

Se potesse esprimere un desiderio?
«Vorrei tornare a Procida, ne ho una gran voglia».

Da quanto tempo manca dalla sua isola?
«Quattro anni, forse. L'ultima volta ci sono stato con mio figlio Eduardo, giornalista come me, abbiamo fatto una passeggiata bellissima da Marina Grande alla Chiaiolella. Quanti ricordi mi ha risvegliato».

Il primo che le torna in mente?
«Almeno un paio».

Quali?
«Mio padre, capitano di lungo corso, che partiva a bordo di grandi navi per tornare chissà quando, e la mia vita da bambino che scorreva con straordinaria semplicità».

Lubrano giornalista.
«È una passione che ho sempre avuto. Leggevo molto e scrivevo bene. Ricordo che i miei temi venivano letti in classe, allora si usava così per spiegare meglio agli studenti la giusta impostazione di un componimento».

E il navigante? Non ha mai pensato di seguire le orme di suo padre?
«Sarebbe stato facile. Tra l'altro a Procida c'era una delle migliori scuole marittime, ma se pure ne avessi avuto intenzione, a distogliermi fu proprio lui».

Per quale ragione?
«Mi disse: non farlo, è un mestiere che richiede troppi sacrifici e non ti consentirà mai di goderti davvero una famiglia».

E lei?
«D'accordo, papà: farò il giornalista».

Quale fu la reazione di suo padre?
«Non avrebbe potuto continuare a dirmi che cosa dovevo fare. E poi qualche similitudine tra i due mestieri c'era».

Il capitano di lungo corso e il giornalista?
«A me in realtà intrigava in particolar modo la vita degli inviati speciali, per certi versi simile a quella di chi, come mio padre, navigava in giro per il mondo».

Intanto però viveva a Procida.
«Fino alla terza media, poi venni a Napoli.

Quando mi iscrissi al Giambattista Vico il trasferimento si rese necessario anche se, in verità, i primi anni di liceo andavo e venivo da Procida».

Bella fatica.
«È vero, facevo una gran fatica: i trasporti negli anni '50 non erano quelli di oggi, eppure ho un ricordo bellissimo. Napoli mi piaceva tanto e andare a scuola per era una gioia».

Studente modello.
«I compagni erano diventati la mia famiglia, soprattutto quando poi presi una stanza in affitto e lasciai per sempre Procida: incontrarli ogni giorno mi rassicurava».

A proposito di Napoli...
«Penso ai Quartieri spagnoli».

I Quartieri?
«In via Nardones - nota per essere la strada delle case di tolleranza - c'era la redazione del primo quotidiano con il quale cominciai a collaborare. Si chiamava Il giornale».

Lei di che cosa si occupava?
«In realtà quasi di niente».

Come di niente?
«Ero lì per imparare. Un amico di famiglia, conoscendo la mia passione per il giornalismo, mi mandò a parlare con il capo redattore Antonio Ravel che a sua volta mi affidò al capo dello sport, ricordo ancora il nome: Domenico Farina».

Così cominciò a scrivere.
«Qualche articoletto, le partite minori. E però ero molto bravo a fare i titoli, qualità assai apprezzata».

La gavetta, insomma.
«Quante notti ho passato in tipografia, gratis ovviamente, a seguire le fasi dell'impaginazione. Mi incantavo a guardare la stampa del giornale».

Una carriera molto brillante, la sua.
«Ho lavorato tanto, è vero. La tv poi ti regala una visibilità assoluta, ma anche l'esperienza nei settimanali è stata interessante».

Sorrisi e Canzoni?
«Lì scalai tutte le vette: da redattore diventai direttore. Anni in cui vendevamo un milione di copie».

Torniamo in tv: come ha conquistato la fiducia del pubblico?
«Secondo me è stata un po' la mia faccia ironica, il modo di parlare semplice ma senza facilonerie, e forse anche l'accento, la mia napoletanità garbata e credo rassicurante».

Audience alle stelle.
«Il primo anno Mi manda Lubrano non andò benissimo ma Guglielmi fu uomo tenace. Abbi pazienza mi disse: l'anno dopo passammo da due a sei milioni di spettatori».

Grazie a furbetti e truffatori che lei smascherava in tv. C'è qualche caso eclatante che ricorda?
«Tanti».

Uno in particolare?
«Lo racconto spesso. Nel mirino finì un venditore piemontese che da un'emittente privata proponeva l'acquisto di smeraldi».

E fin qui tutto regolare.
«Non proprio. Molti telespettatori ci segnalarono che si trattava di pietre false, veri e propri fondi di bottiglia. Lo smascherammo in diretta, il piazzista si infuriò e tentò di lanciarmi una torta in faccia. Per fortuna mancò il bersaglio e a fine programma venne a prenderlo la Guardia di finanza».

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