Carolina Benvenga, parlo di me: «In tv faccio la babysitter per il tempo di un caffè»

Carolina Benvenga, parlo di me: «In tv faccio la babysitter per il tempo di un caffè»
di Angelo Carotenuto
Sabato 15 Ottobre 2022, 16:00 - Ultimo agg. 16 Ottobre, 09:10
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A un certo punto, poco più di due anni fa, mettemmo delle mascherine sulla bocca e ci tappammo in casa. Le piccole e i piccoli ci guardavano, come sempre fanno quando sott'occhio scrutano il mondo dei grandi, per cercare risposte ai misteri silenziosi che si portano dentro. Non avevamo molte risposte da dare, non ancora. Dai canali Rai s'affacciò allora a spiegare Carolina Benvenga, conduttrice, cantautrice e attrice: il suo spettacolo Un Natale favoloso partirà da Napoli il 18 dicembre. Parla in tv all'età pre-scolare da una decina d'anni: con la Posta di Yoyo, con i programmi di Rai Gulp e con i suoi progetti su YouTube. Le visualizzazioni variano dai 3 ai 7 milioni. La sua folla ascoltò e provò meno paura. 

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Lei cosa guardava da bambina?
«Molta televisione classica. Ho amato Lorella Cuccarini prima di avere la fortuna di conoscerla. Adoravo le canzoni di Cristina D'Avena. Sono stata rapita dalla capacità di Raffaella Carrà di mangiarsi il palco e lo studio. Tutti riferimenti che ho cercato di assimilare, sperando di prendere qualcosa da tutte. Non appartengo alla generazione di Lady Oscar. Il mio amore più grande è stato Sailor Moon. Credo di avere smesso di guardarla solo a 15 anni. Fino a quel momento cercavo le repliche su Italia 1».

I piccoli guardano troppa tv o fanno troppe cose?
«Ogni famiglia cerca un proprio equilibrio in base a inclinazioni e passioni. Forse l'iscrizione a due sport, musica e canto è un sovraccarico, ma nella giusta misura gli impegni sono uno stimolo.

Lo dico da grande fan della noia, quella di una bambina a lungo figlia unica. Non avevo l'iPad, avevo Bim Bum Bam. Quando finiva, finiva. Così passavo lunghe ore in cameretta a costruire mondi. La casa di Barbie costava troppo, me la sono fatta io con le scatole delle scarpe. Mia madre è stata brava a non comprarmela neppure quando avrebbe potuto».

Com'è finita nel mondo dello spettacolo?
«Ero una bimba estroversa, vorrei dire logorroica. Sempre mia madre mi iscrisse a un'agenzia. Avevo 8 anni e sono ancora con loro. Ero pure molto testarda. Le cose le facevo a patto di deciderle io. A un provino che non mi piaceva, facevo scena muta. Quando mi presero per la pubblicità di un detersivo, mi accorsi che mi divertivo. Si accese la passione per il set, quel mondo di microfonisti e macchine da presa. Poi è arrivato il casting per il film Tickets. Avevo 12 anni quando abbiamo girato e 15 quando è uscito. Ero nell'episodio di Kiarostami, tutto girato su un treno regionale Roma-Orte, andata e ritorno. Un uomo delicato, profondo, un interprete ci aiutava a comunicare. Facevamo lunghissime chiacchierate, voleva sapere della scuola, dei miei interessi, le mie passioni».

Dopo un autore come Kiarostami, lei si è diplomata in recitazione con un'opera di Botho Strauss. Il suo teatro non è un esempio di ottimismo. Cosa conserva di quel percorso?
«Ogni tanto sento dire che i bambini sono sempre uguali, da che mondo è mondo. Non è così. Sono uguali quando bevono il latte. Gli stimoli ricevuti a 6 mesi nel Novecento sono diversi da quelli del Duemila. Il teatro di Strauss nasce in un contesto differente. È difficile trovare punti di incontro. I bambini di oggi hanno a disposizione tablet e computer. Sono i figli di un'epoca che ha inseguito e cercato l'evoluzione, anche tecnologica. Le abbiamo costruite noi le televisioni HD, il 3D e il 4K, e ogni anno un nuovo iPhone. Perché dare la colpa a loro, se non sono i figli di Botho Strauss? Hanno strumenti nuovi di riferimento. Non è sbagliato che abbiano le loro piattaforme, casomai saremo sbagliati noi a non dar delle regole. Se non li educhiamo al loro tempo, faremo crescere adulti incompetenti».

Mi racconta la sua periferia romana? Com'è stato crescere a San Basilio?
«In realtà fino ai 14 anni ho vissuto a Monteverde, con mia madre e la nonna. Non è che fossimo benestanti, eravamo in affitto, la mia è una famiglia umilissima, ma non me ne sono accorta. Non mi mancava niente, frequentavo una bella scuola pubblica, la parrocchia, mi sono divertita così. A San Basilio ci siamo trasferite quando mia madre si è sposata, ma non ho vissuto la periferia nel modo in cui ne parlano: la Roma criminale. Non ho avuto problemi. Anzi. Ho preso casa lì, in certe costruzioni nuove, perché ho bisogno di vivere in un clima familiare, accanto al baretto che conosco da 20 anni, il vecchio supermercato, la solita pasticceria. Ho bisogno di vedere persone che sanno cosa prenderò. Mi rassicura».

Come fa una abitudinaria a sperimentare nuovi linguaggi?
«Vivo un continuo dualismo tra una cosa e il suo contrario. Mi piace viaggiare, ma anche la monotonia della routine. Mi piace circondarmi di gente e sentire il bisogno di stare per fatti miei. Deve dipendere da uno stile di vita, da quando per tre mesi facevo la valletta in tutta Italia e per tre mesi stavo ferma senza lavoro. Conoscere più linguaggi è un dovere. Ho avuto la fortuna di entrare nel mondo dei follower attraverso le famiglie. Il mio è un pubblico di piccini, ma di interlocutori adulti: i loro genitori. È come se fossi la loro baby sitter, per il tempo di fare una doccia o prendere un caffè. Sanno che affidandomi i loro bimbi, c'è un programma studiato nei dettagli, dai messaggi ai colori».

E come devono essere, i colori?
«Accesi, ma non troppo. Devono stupire senza spaventare. Devono accompagnare percorsi di apprendimento. Amo i bambini da quando la domenica a pranzo mi prendevo cura dei cuginetti, mentre i grandi mangiavano. Ho istinto, il resto l'ho studiato all'Università. Quando entri nel mondo Kids della Rai, devi imparare a relazionarti con un ambiente molto professionale, attento a ogni dettaglio. Con i bambini, siamo sempre sotto esame».

I suoi bambini incidono anche nella scelta di una foto privata su Instagram o sulla scelta di un ruolo da attrice?
«È una responsabilità gigantesca, perché il mio ruolo sono io. Ma non mi costa nulla. Sono fatta così. Non posterei mai una foto mezza nuda. Non c'è niente di male, sono io che mi vergogno. Ho creato il mio lavoro da un calco del mio carattere. Sono a mio agio sui social in questo modo. Ho rifiutato dei progetti perché non erano in linea con il mio pubblico. Come potrei permettermi di interpretare un'assassina?».

C'è qualcosa di cui ai bambini non si deve parlare?
«Credo che con il giusto linguaggio e la giusta misura, non esistano argomenti tabù. Se un genitore non sa come fare, esistono figure professionali che offrono il loro supporto. La psicologia dell'età evolutiva è un'area fenomenale, non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto. Se viene a mancare un genitore, non si può far finta di niente. Quello sì che sarebbe un danno: lavora nell'inconscio dei bambini e si ripropone sotto forma di trauma da adulto».

Sono pronti anche per le due mamme di Peppa Pig?
«I bambini non si fanno i problemi degli adulti. Se una famiglia affronta certe dinamiche con ansia e con vergogna, le proveranno anche loro. Se tutto viene vissuto con naturalezza e serenità, perché un bambino dovrebbe essere turbato da due mamme? Io sono cresciuta con una mamma e una nonna, e allora? Una famiglia non è tale perché esistono un papà e una mamma, ma per l'amore che offre. Non possiamo evitare ai bambini le loro piccole e grandi ferite, né possiamo evitargli il dolore. Perché dovremmo evitare la diversità? È un nostro dovere mostrargliela, farli crescere liberi e aperti. Il mondo è molto più grande del posto in cui vivi. Devono crescere curiosi, nell'accettazione dell'idea che non siamo uguali. Devono saper riconoscere cosa va bene per loro, cosa gli piace e cosa no. Ho capito che un bambino al quale limitiamo alcune visioni, sarà un adulto ottuso». 

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