Parlo di me, il regista Amato: «Io, Filumena e l'amore: oggi il testo di Eduardo finirebbe censurato»

Il regista: tanta violenza verbale ma anche tenerezza

Parlo di me, il regista Amato: «Io, Filumena e l'amore: oggi il testo di Eduardo finirebbe censurato»
di Angelo Carotenuto
Sabato 14 Gennaio 2023, 07:59 - Ultimo agg. 16 Gennaio, 16:43
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Nel salotto della casa romana del regista di Filumena Marturano (in onda lo scorso dicembre su Rai 1), se ne stanno uno accanto all'altro un biliardino, un teatrino per marionette, un divano. Francesco Amato le chiama le colonne della sua formazione. Il calcio, lo spettacolo, la psicanalisi. Ha giocato da ragazzino come mezzala destra nel Bra, la squadra del suo paese. Le marionette sono di sua figlia, «non so se farà l'attrice, l'importante è che faccia il classico. Io sono pentito dello scientifico, essermi perso letture importanti per studiare dove stava una X e cosa faceva una Y». Quanto all'analisi, si tratta di quel passaggio che ora consente di avere su un set un patrimonio di autoironia, «coordinate comuni di umorismo, modelli universali, un certo gusto che conosciamo grazie a Mel Brooks e Woody Allen. Ecco, se proprio dovessi dire chi è un regista, penserei a uno che alimenta la follia degli altri, la osserva, la raccoglie, le dà ordine».

Della follia agitata per Filumena cosa le rimane?
«Rimane Napoli. Come una saudade. Per le persone conosciute, le passeggiate in città, certi momenti della lavorazione. Rimane l'esperienza di aver avvicinato un grande testo del Novecento, ancora prima che un grande autore. Dovevamo prescindere dalla venerazione per Eduardo, altrimenti avremmo fatto un film con la testa sua, non uno che da lui partiva per esprimere la nostra sensibilità. Ora è il momento di allontanarsi da Filumena, dimenticarla, per partire con la nuova stagione di Imma Tataranni. È stato un momento prestigioso, si torna con umiltà sulla Terra, alla nostra vocazione seriale, ai nostri gialli, alla tv di genere».

Sente Filumena così distante da lei?
«In tutta sincerità, devo ancora capire chi sono. Mi piacciono molte cose. Mi appassiono ai documentari di Rai 5 e posso vedere C'è posta per te. Mi interessa il coinvolgimento emotivo. Nei personaggi, non nei linguaggi. Quando ero studente, al Centro sperimentale, veniva messa in discussione la serialità, si diceva che rovinasse. Non è vero. La serialità è il luna park della regia. Offre la possibilità di esercitarsi sulle storie. Dico Montalbano, Colombo, Derrick. Il caso di puntata. Inizia, finisce e sei allo stesso punto. Come i fumetti di Topolino. Al cinema si può far ridere, far piangere e fare paura.

A me far paura non interessa, le altre due cose sì».

Cosa ha trovato interessante nel testo di Filumena?
«Una coppia che vive in una condizione di dipendenza affettiva, una relazione di 25 anni, fatta di momenti felici, altri brutti, nella sostanza un rapporto claustrofobico. Ma la dipendenza affettiva permette anche di continuare a vivere in attesa che le cose migliorino, forse tutti ne abbiamo avuto esperienza. Eduardo la racconta in modo affascinante. Credo sia un'opera moderna per questo. È uno dei pochi testi, forse il solo, in cui rappresenta la famiglia con tenerezza, senza sarcasmo o rancore, gli elementi cardine della commedia all'italiana».

Qualcuno ha detto che lei ha visto amore dove non ce n'era.
«Guardi, io riconosco di essermi preso una libertà nel finale. Solo là. Possiamo discutere di quel passaggio, l'unica scena in cui mi sono discostato dalle indicazioni di Eduardo. Nella commedia Domenico Soriano finisce tracannando un bicchiere di vino. È evidente che non si tratta di un happy end. Beve per stordirsi, non per brindare. Per mia vocazione, ho pensato invece a un finale da perfetto melo. È l'unica deroga che mi sono concesso».

Eduardo è intoccabile? Ci si deve giustificare per averlo reinterpretato?
«Tutte le scelte sono nate dalla lettura di un testo che ha flashback, ellissi temporali forti e si svolge dentro casa Soriano per una convenzione. Eduardo stesso avrebbe preferito spostare i personaggi nello studio dell'avvocato, a un certo punto. Esiste la convinzione che rispettare un testo significhi farlo recitare com'è, secondo me vuol dire interrogarlo e restituirlo. Ho lavorato sulla tradizione. Ho visto i film di De Sica e di Eduardo. Mi hanno chiesto perché avessi inventato Diana attrice. L'ha fatto Eduardo nel 51. È un ritratto sopra le righe, più del mio. La fa arrivare dall'Inghilterra. Cos'è allora un testo apocrifo? Se l'autore stesso vi mette mano, è permesso oppure è un oltraggio? Io il testo l'ho studiato. Lo hanno fatto tutti abbastanza?».

Lei è piemontese. Napoli è gelosa?
«Non lo credo, sebbene sia difficile classificarla secondo una sola identità. È una città che si trasforma in continuazione. Non è immobile. La prova è che girare un film d'epoca è complicato. Tra mare e collina, non si espande. Cresce per strati. Le strade sono coperte dai segni della contemporaneità. Ho dovuto guardare a come Wong Kar-Wai lavora su Hong Kong. Non la filma. Ritrae l'epoca con i vestiti, il trucco, i primi piani. In questo senso Filumena non è tv comune, dove si vive di panorami da quando è arrivata la pornografia dei droni. È una città libera come poche altre: Brooklyn, San Paolo, San Francisco. Se due ragazze vogliono camminare tenendosi per mano, a Napoli non ci pensano due volte. Al paese mio, eccome».

Come ha conosciuto Eduardo?
«Seguendo la tournée di Servillo con Le voci di dentro. Stavamo facendo un film insieme, lo raggiungevo nelle sue tappe ogni mercoledì, la sera lo spettacolo, il giovedì le nostre prove e ripartivo. Per settimane, mesi. Grazie a Toni ho capito il teatro di Eduardo, con un testo pieno di veleno e di canaglie vere».

Eduardo è buonista o feroce?
«Se non fosse stato scritto da lui, oggi il testo di Filumena non passerebbe la censura. Soriano dice cose disgustose, la chiama donna che non sa piangere, le dà del mostro. È di una violenza verbale che quasi rende difficile recuperare il personaggio dal punto di vista morale. Le rinfaccia comportamenti che sono l'esito di una schiavitù da lui imposta. Mi chiedo come un uomo possa scrivere cose tanto tremende. È un testo profondissimo nel ritrarre la sensibilità femminile, senza filtri nell'approccio maschile. Filumena è un rubinetto aperto. Oggi non potremmo farlo, forse non sapremmo, per la paura di mettere in scena sentimenti che vivono in noi e che sono socialmente sconvenienti. Non facciamo altro che tamponare e censurare. Siamo in un'epoca in cui vengono chiesti film rassicuranti. Non so se sia giusto, ma è pericoloso».

Che cosa le piaceva leggere da ragazzo?
«Cesare Pavese. Mi piacerebbe adattare Paesi tuoi. Sono cresciuto nei luoghi di Fenoglio e Arpino. Ma c'è stato un momento, da ragazzo, in cui andava di moda Andrea De Carlo. A scuola Due di due lo avevano letto tutti. La moda era arrivare alla penultima pagina e non andare avanti, perché poi finiva. Quando penso al liceo, ripenso a quella pagina là».

Com'è nata nella mezzala destra del Bra l'idea di inventare personaggi?
«Mio padre mi invitò a suonare la chitarra. Fallii miseramente. Andò meglio con una macchina fotografica. Papà è medico. Con le foto faceva una sorta di anamnesi dei pazienti, un'indagine del carattere, combinando la professione con il passatempo. Le foto in bianco e nero erano evocative dell'intimità di un uomo. Non erano selfie. Ho iniziato a fotografare i set dei miei amici al DAMS di Bologna. È venuto naturale scrivere storie, desiderare di vederle rappresentate dalla bellezza degli attori. Del retaggio della fotografia non mi rimane niente. Il mio è un lavoro di comunicazione, divertimento e ironia. Cerco solo di lavorare con persone spiritose che capiscano le mie battute».
 

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