“Gomorra 5”, il business della serie tv: 60 milioni di euro investiti a Napoli

“Gomorra 5”, il business della serie tv: 60 milioni di euro investiti a Napoli
di Davide Cerbone
Venerdì 12 Novembre 2021, 23:47 - Ultimo agg. 14 Novembre, 08:12
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Gli «effetti di Gomorra» su Napoli e sulla sua gente ce li hanno fatti apprezzare The Jackal con le loro caricature che, partendo dal web, hanno fatto breccia nella vulgata quotidiana. Quelli su un comparto da anni in espansione, invece, li racconta Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya che produce con Beta Film la serie Sky original diventata la serie tv italiana di maggior successo nel mondo. «In cinque stagioni abbiamo impiegato otto registi e accanto ai due sceneggiatori principali, Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, ne sono stati coinvolti una dozzina», attacca a snocciolare i numeri della sua gioiosa macchina da guerra.

La saga criminale, che tornerà su Sky e in streaming su Now dal 19 novembre con la quinta stagione, quella conclusiva («una sesta stagione è da escludere assolutamente», assicura Tozzi) è stata venduta in più di 190 Paesi ed è attualmente un successo sulla rete statunitense Hbo.

Per realizzarla, dal 2013, la mega produzione ha schierato un vero e proprio esercito della finzione. «Nelle cinque stagioni sono state impiegate 2.500 persone di troupe, 25.000 tra comparse e figuranti e tantissimi fornitori in oltre 145 settimane di riprese che hanno interessato 900 location in otto città italiane (soprattutto Napoli, ma anche Roma, Ferrara, Bologna, Trieste, Milano, Reggio Emilia e Salerno) e in altri sette Stati (Spagna, Francia, Germania, Bulgaria, Inghilterra, Lettonia e Costarica)», spiega il boss di Cattleya, intestando alla epopea nera di Ciro Di Marzio e Genny Savastano il merito di avere inaugurato la stagione della Cinelandia in salsa vesuviana. E riconosce che, sì, tutto iniziò nel 1996 con «Un posto al sole», «una grande fucina per la tv italiana che a Napoli ha svolto una funzione importante, tenendo accesi i motori», ma «Gomorra», fa notare, «è un prodotto di taglio cinematografico, costoso e complicatissimo». 

 

Un gigantismo produttivo ha avuto ricadute importanti sulla città che fa da sfondo alle vicende di Ciro Di Marzio e Genny Savastano. «Considerando le cinque stagioni e il film “L’immortale”, parte integrante del progetto, il valore complessivo della produzione è di 100 milioni, 40 dei quali da apporti esteri: un livello di esportazione altissimo. Di quei 100 milioni, circa 60 sono andati al territorio napoletano. All’inizio la troupe era formata soprattutto a Roma, poi abbiamo utilizzato sempre di più la componente locale. Indirettamente, abbiamo fatto un’attività di formazione», rimarca il produttore. E aggiunge: «”Gomorra” ha dimostrato che a Napoli si potevano girare molto bene cose complesse. Oggi possiamo dire che, dopo Roma, questo è il più grande centro di produzione d’Italia». 

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La serie cult è stato un trampolino che ha catapultato attori talentuosi, ma confinati nel recinto regionale, su un proscenio internazionale. «Il cast è tutto napoletano, del resto la città esprime una grande vitalità nel teatro e una qualità degli attori molto alta. Credo sia merito del pubblico, che non perdona. Quando abbiamo fatto i casting, siamo stati sempre sul filo dell’incertezza, anche per i ruoli principali. Basti pensare a Salvatore Esposito, scritturato per la serie Usa “Fargo”. E qui si sono formate tante professionalità anche tra le maestranze», ricorda Tozzi. Non solo: in alcuni quartieri, c’è chi ha avuto l’occasione per saltare da un destino all’altro. «Sono stati pochi casi, ma felici», ricorda Tozzi: «All’inizio abbiamo escluso chiunque avesse precedenti penali per proteggerci dalle infiltrazioni malavitose, poi le associazioni ci hanno spiegato che non era un buon sistema, in quanto non avremmo dato una possibilità a chi stava già sulla strada del recupero. Così ci siamo aperti, e non ce ne siamo pentiti». Come a dire che può filtrare molta luce anche attraverso il buio di un racconto a tinte fosche. «Abbiamo portato molto lavoro e abbiamo visto che effetto fa il lavoro», sottolinea Tozzi: «Si capisce che in alcune zone quello, insieme alla scuola, è il problema centrale: dove arrivava il lavoro, la gente cambia. A riprova del fatto non c’è niente di connaturato o inevitabile. E che cambiare non è così difficile». 

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