Raffaella Carrà icona gay e sex symbol, l'ombelico del mondo che liberò corpi e coscienze

Raffaella Carrà icona gay e sex symbol, l'ombelico del mondo che liberò corpi e coscienze
di Federico Vacalebre
Martedì 6 Luglio 2021, 07:00 - Ultimo agg. 19:22
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Quando, nel 2001, Raffaella Carrà si presentò alla sala stampa del teatro Ariston per il bilancio del suo non esaltante Sanremo tutti noi giornalisti ci alzammo in piedi intonando la sigla di quell'edizione. Disse: «Quanto è difficile chiedere scusa. Quanto coraggio ci vuole per dire a tutti sono stata io, è colpa mia, forse ho sottovalutato la portata dell'evento». Era la prima volta che nella terra dei cachi qualcuno ammetteva di aver sbagliato, di aver perso. Raffa aveva sbagliato, non aveva perso, e da superprofessionista meritava l'applauso fragoroso che le tributammo. 

Era poca roba quel Sanremo vinto da Elisa («Luce (tramonti a Nord Est») rispetto alla carriera della ragazzotta venuta da Bologna per liberare corpi e coscienze. Nell'Italia democristiana Raffaella Maria Roberta Pelloni fu un ciclone «entrista», era la regina del varietà che ne sconvolse le regole mostrando l'ombelico («Ma che musica maestro»), l'ombelico del (nostro) mondo, di un mondo che stava cambiando ma la tv non doveva mostrarlo. Lei, invece, ballando quel «Tuca Tuca» cambiò le carte in regola. Ritmo da tormentone, diremmo oggi, testo banale quanto chiaro: «Tuca, Tuca, Tuca L'ho inventato io/ per poterti dire:/ mi piaci, mi piaci, mi piaci, mi piaci, mi pia...». Tuca Tuca come tocca tocca, il corpo di lei con il bacino scoperto, il corpo di Enzo Paolo Turchi, poi persino quello di Sordi in una scena entrata nella storia dell'entertainment nazionale. La censura era in agguato, Albertone sdrammatizzava e sdoganava.

Don Lurio aveva coreografato il motivetto firmato da Gianni Boncompagni e Franco Pisano. I benpensanti erano infuriati per quell'abito superattillato, per quell'ombelico ostentato: avevano ragione ad essere arrabbiati, la Carrà li avrebbe mandati all'opposizione. 

 

In quegli spettacoli in bianco e nero, ma pure poi in quelli a colori, Raffa cantava le gioie del vivere, dicendo pane al pane e vino al vino, ovvero sesso al sesso, spesso scollata, ancor più sgambata, sempre sorridente, il caschetto biondo al vento, professionale come nessuno. Volgare mai, di una sensualità casalinga, nazionalpopolare per dirla con Gramsci. «A far l'amore comincia tu», era un invito sfacciato, «Tanti auguri» ribadiva il concetto: «Se per caso cadesse il mondo io mi sposto un po' più in là/ sono un cuore vagabondo che di regole non ne ha./ La mia vita è una roulette/ i miei numeri tu li sai/ il mio corpo è una moquette/ dove tu ti addormenterai/ Ma girando la mia terra io mi sono convinta che/ non c'è odio, non c'è guerra quando a letto l'amore c'è». E vai con il coro: «Com'è bello far l'amore da Trieste in giù/ Com'è bello far l'amore io son pronta e tu/ Tanti auguri/ a chi tanti amanti ha/ Tanti auguri/ in campagna ed in città». Gli amanti, addirittura? Sì, e, come se non bastasse, «l'importante è farlo sempre con chi hai voglia tu/ e se ti lascia lo sai che si fa?/ Trovi un altro più bello/ che problemi non ha». In «Luca», poi, diede voce a una delle tante donne innamorate di qualcuno che, invece, si rivelava omosessuale: «Ma un pomeriggio dalla mia finestra/ lo vidi insieme ad un ragazzo biondo/ chissà chi era, forse un vagabondo/ ma da quel giorno non l'ho visto proprio più».

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Benigni, quando era ancora un piccolo diavolo e non cedeva a lusinghe santificanti, le frugò sotto la gonna al «Fantastico» 1991: «Cosa c'avete voi donne che attira così l'omo?», iniziò, prima di pregare: «Fam... Fammela vedere un secondo!». Cosa? «La gattina, la chitarrina, la passerottina, la fisarmonica... la picchia, la crepaccia, la pucchiacca... pensa ai napoletani... la pucchiacca! É bellissimo, è focoso! Eh? La tacchina, la topa, la sorca, la patonza...». Poi l'elenco virava al maschile: «Pisello, pisellino, pistolino, pipino... Poi quando si cresce: il randello, la banana, l'asta, la verga, la mazza, il cetriolo, eh.. O pesce, l'uccello... lo sventrapapere»... Raffa continuava ad educare gli italiani al nome delle cose, ad una sana e consapevole libidine. 

La sinistra intellettuale non se ne accorse subito, anche se l'ombelico del (nostro) mondo dichiarava di aver sempre votato comunista, quelle canzonette leggerissime erano ben più concretamente rivoluzionarie di tante altre intonate a pugno chiuso. Tanto che la sex symbol divenne anche icona gay, il popolo che un giorno si sarebbe chiamato lgbt+ trovò in quella diva dei due mondi (la Spagna e l'Argentina la acclamarono quando da noi perse visibilità) un'icona degna di mille party, ma anche delle dediche di qualche musical e qualche film. Alle mitiche serate del Muccassassina, come sui carri arcobaleno del «Pride» le sue canzoni erano colonna sonora obbligata, magari nelle versioni remix di Bob Sinclair («A far l'amore comincia tu», che poi Paolo Sorrentino volle in «La grande bellezza», «Forte, forte, forte»). 

A «Vanity Fair» lei disse: «Morirò senza saperlo. Sulla mia tomba lascerò scritto: Perché sono piaciuta tanto ai gay?» La risposta l'aveva azzardata il 16 novembre 2020 addirittura «The Guardian», titolando un articolo «Raffaella Carrà: la popstar italiana che ha insegnato all'Europa la gioia del sesso», sottolineando la «combinazione di sex appeal e accessibilità»: «Ha insegnato alle donne che avere il libero arbitrio in camera da letto non era scandaloso, che va bene innamorarsi di un uomo gay e che non tutte le relazioni sono esattamente sane». Insomma: «Ha aiutato le persone a vivere vite più appaganti, usando ritmi a cui nessuno che abbia sangue nelle vene può resistere». Altro che lo share di quel Sanremo 2001. 

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