Oggi abbracceranno cento profughi ucraini. «Donne e bambini che scappano dall'orrore inseguendo una speranza». Patrizio Oliva, 63 anni, napoletano, campione olimpico e mondiale di pugilato negli anni Ottanta, è a Siret, città romena al confine con l'Ucraina. Fa parte della delegazione dei corrispondenti diplomatici di Malta, arrivata qui per portare generi di prima necessità e trasportare ucraini su due pullman in Italia. «Siret è soli 40 metri dall'inferno».
Patrizio, perché ha deciso di intraprendere questo viaggio nel dolore?
«Per fare sapere a coloro che soffrono che noi stiamo con loro. Pronti ad affrontare un viaggio in pullman di 37 ore, senza sosta fino a stasera (ieri ndr) , per raggiungere il confine e poi cominciare il viaggio di ritorno in Italia. Con cento ucraini, che saliranno sui bus dopo i tamponi. C'è un piano di accoglienza e sarà coinvolta anche Napoli».
La sua città, una capitale della solidarietà.
«Ho ricevuto una telefonata dall'assessore comunale al Welfare, Luca Trapanese. Si è messo a disposizione con il centro di prima accoglienza allestito presso la Mostra d'Oltremare. I napoletani in questa spedizione sono due, io e Antonio Cirillo, che vive da tempo in Toscana. Ci sono il governatore dei corrispondenti di Malta, Catello Marra, e l'ex senatore Antonio Razzi».
Quando lei è entrato in questa associazione umanitaria pensava un giorno di dover arrivare ai confini di un Paese in guerra per aiutare chi scappava dai bombardamenti?
«No. E questo perché la guerra è qualcosa che dovrebbe essere lontanissimo da noi, dalla nostra epoca e dalla nostra mentalità. E invece siamo ripiombati nel buio. Purtroppo il passato non ha insegnato nulla. Ci siamo detti che non potevamo restare a guardare e siamo saliti sui due pullman».
La sua famiglia come ha preso questa iniziativa?
«Ne abbiamo parlato e le perplessità sono subito scomparse. Una delle mie figlie è stata in Africa in aiuto delle povere popolazioni, sappiamo cosa è la solidarietà.
In che senso?
«Io sono partito dalla periferia di Napoli, casa mia era in via Stadera a Poggioreale. Raggiungevo tutti i giorni a piedi la palestra nel centro storico, ho imparato presto cosa è il sacrificio. Da sempre sono vicino ai ragazzi di Napoli perché lo sport dà una possibilità. L'ho spiegato bene negli incontri con quelli che sono nell'istituto di Nisida».
E lo sport può aiutare anche i giovani profughi ucraini?
«Sì, è un valore importante e sarà di supporto in questi mesi, almeno finché per queste famiglie non si inizierà il viaggio di ritorno nella loro terra. Perché prima o poi dovrà cominciare».
Tanti sportivi hanno imbracciato il fucile e sono scesi a combattere.
«Wladimir e Vitali Klitschko, quest'ultimo sindaco di Kiev. E poi Oleksander Usik e Vasiliy Lomachenko. Parliamo di grandi campioni del pugilato. Sono usciti dalla loro vita normale e hanno preso le armi. Difendono la bandiera con coraggio. Sono loro gli eroi, non noi che siamo arrivati qui soltanto per dare una mano a un popolo all'improvviso piombato in un incubo».
Il 2 agosto del 1980 lei vinse a Mosca l'oro olimpico: quella di allora era una guerra fredda.
«Sì, vi fu il boicottaggio dei Paesi occidentali perché altissima era la tensione tra gli Stati Uniti e l'Urss. Noi partecipammo sotto l'insegna del comitato olimpico, non dell'Italia. In finale vinsi contro l'idolo di casa, Serik Konakbayev. E nel palazzetto ascoltai applausi dei tifosi russi. Rispettarono l'avversario. Lo sport ha sempre annullato le distanze e respinto le contrapposizioni».
Questo viaggio a Serit è la più bella medaglia della sua vita?
«Le medaglie le meritano questi uomini ucraini che stanno combattendo per la libertà o che soffrono a tanti chilometri di distanza dalle loro famiglie. Io spero che questa guerra possa essere alla fine una lezione per tutti e far crescere lo spirito di solidarietà, lo stesso che ha accompagnato la nostra squadra nel viaggio a Serit: non vediamo l'ora di abbracciare questi nuovi amici».