Ucraina, quel viaggio della speranza
sul pulmino dei tennisti napoletani

Ucraina, quel viaggio della speranza sul pulmino dei tennisti napoletani
di Francesco De Luca
Venerdì 1 Aprile 2022, 07:00 - Ultimo agg. 2 Aprile, 08:04
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«Angelo, da quanto tempo fai questi viaggi per la Caritas?». Erano a metà della strada da Drohobych a Napoli quando una donna di Kharkiv ha fatto questa domanda. «Cosa le ho risposto? Che era il mio primo viaggio e che faccio il maestro di tennis». Il viaggio nel dolore di Angelo Chiaiese e Paolo Conte per trasportare dodici profughi sistemati presso la Caritas di Drohobych. Loro fanno parte della grande e bella famiglia del Tennis Club Napoli, lo storico circolo della Villa comunale, e hanno raggiunto l'Ucraina a bordo del pullmino sociale messo a disposizione dal presidente Riccardo Villari. «Abbiamo fornito l'automezzo, alcuni soci hanno offerto medicinali e altro materiale, entusiastico il sostegno a un progetto di concreta solidarietà di Chiaiese e Conte», spiega il numero uno del club. L'idea era venuta così al maestro Angelo: «Vedevo in tv le scene di disperazione e chiedevo a me stesso cosa si potesse fare. Io non mi considero un uomo di chiesa, però mi sono rivolto a don Elio Santaniello, che nella sua parrocchia di Monterusciello si è mobilitato fin dai primi giorni della guerra. Il circolo ha messo il pullmino a disposizione e siamo partiti».

Due pullmini (l'altro allestito dai parrocchiani di Monterusciello) carichi di generi di prima necessità, dai viveri ai medicinali, sistemati sui seggiolini che avrebbero poi accolto i dodici profughi per il viaggio. Le gomme da neve montate in fretta, il lungo percorso senza soste fino al confine tra Polonia e Ucraina. A 7 chilometri dalla frontiera la telefonata di padre Elio mentre montava l'umanissima paura osservando i check point, le strade distrutte, le campagne dove vi erano fuochi accesi dalle bombe. «Non fermatevi: ci sono quelle persone che vi aspettano». Via i timori. Nel cuore di Angelo, Paolo e degli altri partiti da Napoli c'è stata soltanto la voglia di fare in fretta. «Ma era impossibile correre sui pullmini tra controlli degli ucraini e timori di attacchi: ci abbiamo messo quattro ore per fare 80 chilometri», dice Angelo.

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Paolo ha fissato le immagini del centro di accoglienza: «Dove si univano la dignità di quelli che non hanno più niente e il mondo che si è mobilitato per loro.

File lunghissime di tir e depositi strapieni. E poi ragazzi di tutti i Paesi che assistevano chi aveva bisogno: una sedia a rotelle per un'anziana, un piccolo show di un settantenne con naso e capelli rossi da clown per divertire i bambini». Abbracci tra figli che restavano e genitori che partivano, le lacrime e il disperato racconto di una donna. «A Kharkiv si era rifugiata con la figlia in un bunker e quando ne era uscita aveva trovato la sua casa distrutta dai missili. Raccolte poche cose, era salita su un pullman per raggiungere quella città nella zona di Leopoli e andare poi in un'altra terra», racconta Angelo. Pianti per gli addii («Pochi uomini in partenza, solo gli ultrasessantenni: gli altri tutti a combattere», spiega Paolo), poi timidi sorrisi e sguardi di speranza quando veniva superato il confine e l'orrore era finalmente alle spalle. Ventiquattro ore di viaggio fino a Napoli, con rare soste negli autogrill. «Entravamo noi perché loro non avevano né mascherine né green pass. Spiegavamo con garbo che funziona così». La Diocesi di Pozzuoli si è occupata della sistemazione dei dodici profughi. Angelo, Paolo e gli altri amici napoletani ringraziati con abbracci commossi. «Ma a ringraziare dovevamo essere noi». 

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