Lombardi si prende la Gevi Napoli:
«Io tra adozione e razzismo»

Lombardi si prende la Gevi Napoli: «Io tra adozione e razzismo»
di Stefano Prestisimone
Lunedì 22 Giugno 2020, 09:30
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Schiacciate e sorrisi. Eric Lombardi approda alla corte di Pino Sacripanti e della Gevi Napoli con un bel progetto: conquistare il cuore dei tifosi. Ha solo 27 anni e un gran bagaglio di esperienze, sul campo da basket ma soprattutto nella vita. Il neo bronzo di Riace partenopeo, ala di 2,01, grande atleta, devastante schiacciatore, da bambino ha vissuto l’abbandono e l’adozione, il rifiuto da parte della prima famiglia adottiva e il riaffido a un’altra. L’infanzia come una via crucis da cui è uscito forte, consapevole, maturo, senza perdere quel suo spirito gioviale che tanto lo ha aiutato. Ha anche idee chiare sull’argomento oggi drammaticamente attuale, il razzismo, da cui pure è stato toccato. E’ solare, aperto, entusiasta, ma le antiche sofferenze ogni tanto riemergono.

Fa ancora i conti con i fantasmi del passato, Eric?
«Non ho paura a ricordare il passato. Me lo porto dentro. Io e mio fratello più piccolo, Harrison, siamo nati a Torino da genitori nigeriani ma subito dopo siamo stati abbandonati. Siamo finiti in due famiglie diverse, ma per me è stata più dura. Perché dopo qualche tempo, i genitori adottivi mi hanno riportato indietro». 

Cosa accadde?
«Ero piccolo, intorno ai 4 anni, ma ho avvertito il dolore e l’amarezza. Sono cose che mi hanno segnato. E che non ho dimenticato. Mi sono posto tante domande da allora ma non ho mai capito perché sia accaduto. Non è dipeso dal mio comportamento ma da altro. Ho pensato a problemi economici. Certo è che ci vuole pelo sullo stomaco per riportare indietro un bambino che ti vede come la sua famiglia. E ammetto che quel trauma mi ha reso più cauto nelle valutazioni. Oggi sono realista e meno sognatore».

La sua famiglia biellese, quella di papà Matteo Lombardi, l’ha però circondato d’affetto.
«Si, assolutamente, sono stati stupendi. Questa è la mia famiglia, punto. I miei veri genitori non li ho cercati, non sono andato in Nigeria, non ho sentito quel richiamo perché la tua vera famiglia è quella che ti cresce, non quella che ti mette al mondo e basta». 

Razzismo e violenza. La morte di George Floyd l’ha vissuta come un trauma?
«Ammetto che dopo la prima volta, quel video con il ginocchio sul collo è impossibile rivederlo. Terribile, agghiacciante. In America è sempre stato così, non mai cambiato nulla, l’integrazione è solo apparenza. I neri sono decenni e decenni che subiscono. Per fortuna c’è chi è stufo ed è stato bellissimo che alla protesta si siano uniti anche americani bianchi, messicani, indiani, pakistani. Lo slogan Black lives matter lo faccio mio».

Anche nella sua vita c’è stata l’ombra del razzismo?
«Anni fa, al palasport di Treviglio, mi chiamarono “negher”. Ci fu un po’ di maretta, dopo la partita però il club mi chiese scusa per quei pochi stupidi. E per me è finita lì».

Di sicuro a Napoli non avrà di questi problemi.
«Mi hanno detto che è una della città più accoglienti del mondo ed una gioia per me venire a giocare lì. Certo ha pesato la presenza di Sacripanti, Pino è stato fondamentale per la mia carriera. Nel 2013, quando mi convocò per gli Europei Under 20 che poi vincemmo, venivo da una stagione in cui avevo visto pochissimo il campo. Ero depresso. Ma in maglia azzurra ritrovai tutta la voglia. E fu merito suo. Ma so che la società è super e sono anche felice di ritrovare degli amici come l’ex compagno di nazionale, Diego Monaldi, e Daniele Sandri».

Come ti presenteresti al pubblico di Napoli?
«Già mi sto preparando fisicamente dopo lo stop per il virus. Sono anni che gioco da 4, ovvero da ala grande, ho sicuramente buone doti atletiche ma ho lavorato tanto sul tiro, che non era il mio pezzo forte, e le mie percentuali sono molto migliorate. In difesa posso marcare 3 ruoli, dalle ali piccole ai pivot. Come persona sono un ragazzo tranquillo, molto socievole, solare. E Napoli credo sia proprio il mio luogo ideale».
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