Liverpool, la vittoria della Premier
va oltre il guardiolismo imperante

Liverpool, la vittoria della Premier va oltre il guardiolismo imperante
di Matteo Sorio
Sabato 27 Giugno 2020, 07:30 - Ultimo agg. 08:00
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Benvenuta Premier, addio (per una notte) distanziamento sociale. Liverpool, è qui la festa. «You’ll never walk alone», bandiere rosse, fuochi d’artificio e migliaia di cuori fuori da Anfield in astinenza trentennale da titoli inglesi (siamo al 19°, -1 dal Man Utd). Era il giugno 2019 e il sindaco della città, Joe Anderson, tifoso Everton, stringeva così la mano a Jurgen Klopp, di ritorno dalla Champions di Madrid: «Se continuate a vincere l’anno prossimo vi vieto la parata…». Niente parata, c’è il coronavirus (1.500 vittime nel Merseyside da marzo a oggi) ma il commento dell’assistente capo della polizia Rob Carden alle immagini di due sere fa dice tutto: «La stragrande maggioranza dei tifosi Reds – orfani fino al 4 luglio dei pub, per la cronaca – ha capito che non è il momento giusto per radunarsi a festeggiare».
La stragrande maggioranza: gli altri sono scesi in strada a cantare l’inizio (forse) di un’era.

Dentro Klopp c’è la parola Kop (la curva simbolo nell’iconografia Reds) e dentro il suo Liverpool s’intravede il seme di un regno transnazionale (tra i tweet di congratulazioni quello del socio LeBron James, re del basket Usa). La cartolina di questo «scudetto» preso con sette turni d’anticipo è lo stop del City di Guardiola col Chelsea: Pep arriva a Manchester nel 2016, un anno dopo il battesimo britannico di Klopp, da allora è baritonale in terra d’Albione (due titoli, tre coppe di Lega, 2 Community Shields) ma stonato in Europa. Klopp invece sta salendo come un diesel: nel suo 2019 la Champions, il mondiale per club, la Supercoppa europea. A Liverpool c’è chi lo paragona a Bill Shankly: se con quest’ultimo, anni 60 e 70, i Reds smettevano di sentirsi una squadra da Second Division, con Klopp il Liverpool sta incorporando l’evoluzione da lui stesso teorizzata, cioè passare da «doubters» a «believers», da gente che dubita di sé a gente che non teme nessuno.
 
Varata nel ‘92/’93, il Liverpool non s’era ancora preso una Premier (ultima gioia nel ’90) e ieri il Times provava a spiegare Klopp sdoppiando i grafici. In campo, i Rossi sono fomentati da quell’idea di recuperare palla appena la perdono così che l’avversario non abbia tempo di capirci qualcosa. Fuori dal campo, il Liverpool è il club che nell’ultimo lustro, rifacendosi ai suggerimenti dell’allenatore, spende 424 milioni di sterline. Paga Tom Werner, imprenditore americano, patron dal 2010. Al resto ci pensa Klopp, il cui «roster» multinazionale fresco di corona – i bomber africani Salah e Manè, il portierone brasiliano Alisson – nasce da sagge conferme rispetto all’ultima stagione. «Non voglio una statua. La storia non è più un peso ma qualcosa da scrivere. Siamo ancora giovani…», così ieri Klopp. Lui, tedesco di Stoccarda decollato in patria, che da calciatore non scollinò la B tedesca ma da allenatore sta specializzando la tesi di laurea esposta a Dortmund: un calcio fatto di velocità, sacrificio, energia. E di motivazioni. I giocatori del suo vecchio Mainz li portava in ritiro vicino a un lago svedese, notti in tenda e senza elettricità per fare gruppo. Quelli del Liverpool non si sa. Sta di fatto che gli credono. Occhio, i «believers» da oggi si sentono ancora più forti
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