Quando Mandela perdonò l’inno dei rugbysti boeri e fondò la nazione

Nelson Mandela e François Pienaar
Nelson Mandela e François Pienaar
di Paolo Ricci Bitti
Sabato 7 Dicembre 2013, 15:21 - Ultimo agg. 8 Dicembre, 10:30
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Nelson, Nelson, Nelson osannavano i 60mila bianchi nello stesso stadio dove tre anni prima gli unici neri ammessi erano quelli che vendevano le bibite. Il destino di una nazione affidato agli inaffidabili rimbalzi di una palla ovale, affidato alla sfida impossibile contro gli invincibili All Blacks. Sono passati 18 anni da quella temeraria follia di Mandela e ancora fa fermare il cuore la sua decisione di imporre a 40 milioni di neri la passione per la nazionale Springboks che solo i bianchi veneravano.



Era il 24 giugno 1995 e all’Ellis Park di Jo’burg il duello nella finale della Coppa del Mondo era tra Sudafrica e Nuova Zelanda. «Un momento cruciale nella lunga lotta per la democrazia del paese è avvenuto su un campo da rugby» è scritto negli atti fondativi del “Centro per la memoria Mandela”. Prima del fischio d’inizio, nella sorpresa più totale, il presidente Madiba ci sfilò davanti con la maglia verde e l’antilope sul cuore: il simbolo più odiato dai neri fino a poche settimane prima, l’idolo della minoranza afrikaaner che per quattro generazioni aveva imposto il giogo dell’apartheid. E tutti i bianchi si alzarono in piedi per celebrare colui che da giovane era stato braccato dal governo dei bianchi come un terrorista: «Nelson, Nelson, Nelson». Eppure giusto tre anni prima, nel 1992, Mandela aveva sperimentato ancora una volta la slealtà dei boeri: mettendosi contro tutto il “suo” Anc, aveva concesso ai bianchi la possibilità di celebrare di nuovo i loro riti più potenti, le battaglie di rugby contro neozelandesi e australiani, boicottate da 10 anni. In cambio solo un pegno simbolico, un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’apartheid. «D’accordo?» chiese Mandela. «Sì, d’accordo», risposero i boeri.



E invece, appena lo speaker chiamò il silenzio prima di Boks-All Blacks, tutto l’Ellis stipato di bianchi si mise a cantare Die Stem (La voce), l’inno dello stato dell’apartheid. Terrore puro. Nella tribuna stampa raggelata, unico cronista italiano, sentii i colleghi telefonare alle mogli: «Chiudetevi nei rifugi con i bambini, non sappiamo se potremo tornare a casa».



L’Anc non poteva accettare questo affronto in mondovisione: la guerra civile era a un passo. Quel giorno Mandela si giocò gran parte del futuro suo e della nazione: niente sangue, niente vendetta, contro tutto e tutti garantì di nuovo per i bianchi, come fece anche due anni dopo, nel 1994, quando difese ancora quella nazionale davanti all’Anc che voleva strappare dalle maglie l’antilope Springbok e sostituirla con il fiore Protea, simbolo del corso democratico. «No, se vogliamo diventare uno stato unito dobbiamo tutti tifare i Boks ai Mondiali, insieme dobbiamo credere ai loro simboli per dimostrare al mondo che si può avere fiducia nel nuovo Sudafrica». One team, one country.

Un progetto folle, il suo, contro ogni tradizione, contro ogni pronostico. Era pura utopia cercare di convincere i neri a sostenere la squadra del biondo capitano Francois Pienaar che schierava un solo coloured, era pura utopia pensare di poter battere gli inarrestabili All Blacks di Jonah Lomu. Ma Mandela ancora una volta ci mise la faccia, si infilò la maglia condannata alla sconfitta e scese in campo per fare coraggio a tutto il paese. Che ne sarebbe stato di un presidente che aveva creduto così sfacciatamente in una squadra schiacciata dalla Nuova Zelanda?



Servirono i tempi supplementari che non finivano mai, servì morire mille volte credendo di avere perduto, ma poi il calcio di rimbalzo della vittoria sudafricana volò così alto in mezzo ai pali che l’arcivescovo Desmond Tutu disse che era stato accompagnato dagli angeli. «Nelson, Nelson, Nelson», era nata la Nazione Arcobaleno.
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