Maradona, il figlio del Petisso: «Porto Diego in teatro, è il dramma di un genio»

Maradona, il figlio del Petisso: «Porto Diego in teatro, è il dramma di un genio»
di Francesco De Luca
Mercoledì 2 Dicembre 2020, 08:40
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Imita la voce dell'indimenticabile Petisso durante l'intervista. «Papà diceva: quando vai a vedere il Napoli di Maradona non conta se vinci o perdi, ma il grande spettacolo a cui assisti». Diego Roberto Pesaola, in arte Zap Mangusta, autore di libri di filosofia e opere teatrali, ha conosciuto molto da vicino il Pibe. Suo padre Bruno, ex attaccante e allenatore del Napoli, scomparso cinque anni fa, ne fu uno dei migliori amici.

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Papà avrebbe voluto essere l'allenatore di Maradona?
«Fu il suo rimpianto.

Diceva di lui: è una foca intelligente, un alieno. Papà aveva allenato Sivori, altro argentino come lui e Maradona, altro anarchico che giocava con i calzettoni abbassati. Omar decise di andare via dalla Juve, dopo aver vinto tutto, perché era arrivato Heriberto Herrera che avrebbe voluto inquadrarlo: non è possibile con i geni che per questo si innamorano di Napoli».


Questa è stata per oltre mezzo secolo la casa di suo padre.
«Mio nonno Stefano chiamò i figli come il filosofo, Giordano e Bruno. Zio Giordano era quello bravo col pallone, giocava nel Boca Juniors ma subì un incidente alla gamba e allora si dedicò a insegnare il calcio a Bruno. C'era un problema. Papà era destro, il fratello gli spiegò che giocando con il sinistro avrebbe disorientato gli avversari e così gli legava la gamba destra a un albero».


Quando nasce l'amicizia tra il Petisso e Maradona?
«Si incontrarono appena Diego arrivò a Napoli. L'ho conosciuto anche io, venne in teatro per assistere al mio spettacolo La passiflora scura dedicato al tango, con le musiche di Astor Piazzolla. Maradona invitò papà al suo sfarzoso matrimonio a Buenos Aires nell'89, dove accadde un episodio che rivela l'ingenuità di quell'uomo».


Quale?
«Furono vietate le telecamere, Diego voleva che fosse un evento privato, ma decine di ospiti girarono video e poi li consegnarono alle televisioni. Maradona avrebbe potuto fare tanti soldi vendendo l'esclusiva delle nozze ma era un generoso».


Ma anche un uomo dalla vita sbagliata.
«Credo che non sia un nostro diritto giudicare. Diceva mio padre: quello che fa fuori dal campo sono fatti suoi, se è laico ne risponde a se stesso e se è credente ne risponde a Dio. Maradona è stato indiscutibilmente un genio. Della pelota, sì, ma certamente un genio, che è l'assoluto dello specifico. Un dissoluto? L'elenco sarebbe lungo, possono bastare due nomi: Mozart e Caravaggio. Il genio non è inquadrabile e ha un peso complicato da gestire. Facile parlarne quando non si ha quella dote, l'unica che deve essere commentata: non ci interessa cosa ha detto Diego, ma quello che ha fatto sul campo».


Secondo Cabrini, Maradona si sarebbe salvato se avesse giocato nella Juve.
«Non sarebbe mai andato nella Juve. Aveva scelto Napoli perché era come lui: geniale, anarchica, fantasiosa. Era qui il suo daimon, solo qui il seme poteva germogliare. Maradona non era solo fuori dagli schemi: era superiore a tutti. Quando andavo agli allenamenti, vedevo grandi calciatori, da Giordano a Bagni, che sembravano normali al suo cospetto».


Perché tanta commozione nel mondo per la sua morte?
«In vita ha toccato le corde della gioia e la sua scomparsa è stata come la fine di una fiaba. Oggi il calcio è altro, il talento del numero 10 è ingabbiato e un esempio - a livelli ovviamente differenti - è la difficoltà che vive Dybala nella Juve. Già tanti anni fa mio padre diceva: non c'è più fantasia nel calcio, perché la gente dovrebbe pagare il biglietto? C'è stato enorme dolore in Argentina e a Napoli, una nazione e una città unite dal calcio ma anche dalla cultura e dall'arte, in fondo anche da certi eccessi politici rappresentati dalle figure del presidente Peron e del sindaco Lauro. Un salto costante dalla testa al cuore di due popoli sottovalutati: anche per questo Diego aveva subito amato Napoli».


Cosa potrebbe dedicare il figlio di Pesaola a Maradona?
«Un lavoro teatrale. Ci sto pensando perché mi hanno sempre colpito le persone che escono dagli schemi. Oggi siamo tutti costretti a vivere secondo rigide regole, direi da juventini, e non vediamo l'ora di tornare napoletani e impossessarci delle nostre gioie, di quella passione che ispirano i colori azzurri. I colori di Maradona».


La vita di Diego a teatro sarebbe un racconto con più luci o più ombre?
«Lui è stato simbolo della vita che al tempo stesso è giusta e ingiusta. Essa dà il talento, la fama e la ricchezza ma anche il peso della responsabilità difficile da sopportare per chi è fuori dal comune. Maradona parlava con i piedi e la sensibilità del corpo e solo per questo va giudicato, andando oltre le piccole miserie di chi punta l'indice chiedendo un codice di normalità che non può esistere: perché altrimenti Diego non sarebbe stato Diego».

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