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Napoli-Milan, la voglia di Osimhen
e quella partita giocata da solo

di Marco Ciriello
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 7 Marzo 2022, 07:00
3 Minuti di Lettura

La sua eleganza si proietta così in avanti da regalargli una partita in solitudine. Solo un pallone come un messaggio in bottiglia veramente buono, gli arriva da Fabian Ruiz prima del suo inabissamento. L'isolamento di Osimhen, diventa un racconto, sembra che giochi una partita da solo, non ha paura, salta, sgomita, combatte, ma rimane lontanissimo. Il gioco del Napoli negli ultimi trenta, quaranta metri è inguardabile. Scompare Zielinski, Insigne non riesce mai a liberarlo veramente, e il resto è Milan, che dopo venti minuti di palleggio napoletano ha preso le misure e si è appropriato della partita attraverso il centrocampo. E ad Osimhen tocca giocare con una squadra che ha l'asma, e quando riesce a respirare non lo vede, in pratica diventa Hiroo Onoda: il tenente della fanteria giapponese che rimase a presidiare l'isola di Lubang nonostante la seconda guerra mondiale fosse finita. Nessuno avvisa Osimhen che il Napoli ha smesso di giocare, e lui continua a dannarsi: per narcisismo o per coraggio. Riesce anche a farsi ammonire, a litigare, a provare a gestire palloni in area, mai limpidi, sempre sporchi, perché di cross veri per la sua bravura aerea non se ne parla, Mario Rui sembra aver scommesso con se stesso: non devo alzare il pallone. Il resto è sofferenza, e ammirazione per la testardaggine di Osimhen. La sua autostima sulle palle vaganti è da ammirare, come il suo andare a caccia in area aspettando un passaggio smarcante, la sua fiducia nel gol è imbarazzante, in una squadra che davanti a una delle partite della stagione si è smembrata, non tanto per gioco ma per carattere e passione, ha tenuto il campo grazie a Koulibaly e Di Lorenzo, ma comunque in compagnia di un mucchio di errori.

 

Alla fine ad Osimhen rimane la forza di volontà e il gomito, lo strappo in corsa sempre in solitario e il ripiegamento con finta e perdita del pallone per raddoppio avversario. Una partita frustrante, senza compagnia, più tennis che calcio almeno nella sua metà campo. Risplende il suo moto perpetuo, il suo correre a perdifiato, le lotte sui palloni rilanciati e sempre da conquistare con duelli aerei, pochi i palloni gestibili, il resto è tentativo, e tante corse a vuoto. Le verticalizzazioni sono mancate o sono state sempre fioche, prevedibili, senza fantasia, con Osimhen a fare il funambolo con molta, troppa, fiducia, nei passaggi dei suoi compagni. Né la sua prepotenza né il suo cercare lo scontro fisico, sono serviti ad aprirgli una possibilità di tiro, un varco in area, anche se lui non smette mai di credere nell'assolo, ma questo va costruito con un pallone in lungo con i giri giusti, con un cross sulla testa, con un taglio, tutte possibilità mancate. Osimhen rimane un grido, un dissidio, rispetto alla partita del Napoli, mentre dietro di lui latitano gli altri, vengono meno i palloni che gli andrebbero dati in verticale, e che invece rimangono nei piedi del posto di blocco milanista. Osimhen ci mette l'intensità, la volontà, l'irrequietezza che lo rende difficile da marcare, ma poi deve vedere tramontare le occasioni con i suoi compagni a una distanza notevole per il calcio che ci si aspettava dal Napoli, una forbice troppo ampia tra i due reparti. Va bene che il pallone è un mistero senza fine bello, però non viene da solo. Abbandonare alla solitudine un attaccante come Osimhen è una colpa enorme, sembrava una lampada appesa a ridosso dell'area del Milan, ma la sua luce non è bastata. Le sue legnate in direzione della porta di Mike Maignan restano lontane dagli angoli soliti, non entrano, rimanendo un ondeggio d'anca. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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