La sua eleganza si proietta così in avanti da regalargli una partita in solitudine. Solo un pallone come un messaggio in bottiglia veramente buono, gli arriva da Fabian Ruiz prima del suo inabissamento. L'isolamento di Osimhen, diventa un racconto, sembra che giochi una partita da solo, non ha paura, salta, sgomita, combatte, ma rimane lontanissimo. Il gioco del Napoli negli ultimi trenta, quaranta metri è inguardabile. Scompare Zielinski, Insigne non riesce mai a liberarlo veramente, e il resto è Milan, che dopo venti minuti di palleggio napoletano ha preso le misure e si è appropriato della partita attraverso il centrocampo. E ad Osimhen tocca giocare con una squadra che ha l'asma, e quando riesce a respirare non lo vede, in pratica diventa Hiroo Onoda: il tenente della fanteria giapponese che rimase a presidiare l'isola di Lubang nonostante la seconda guerra mondiale fosse finita. Nessuno avvisa Osimhen che il Napoli ha smesso di giocare, e lui continua a dannarsi: per narcisismo o per coraggio. Riesce anche a farsi ammonire, a litigare, a provare a gestire palloni in area, mai limpidi, sempre sporchi, perché di cross veri per la sua bravura aerea non se ne parla, Mario Rui sembra aver scommesso con se stesso: non devo alzare il pallone. Il resto è sofferenza, e ammirazione per la testardaggine di Osimhen. La sua autostima sulle palle vaganti è da ammirare, come il suo andare a caccia in area aspettando un passaggio smarcante, la sua fiducia nel gol è imbarazzante, in una squadra che davanti a una delle partite della stagione si è smembrata, non tanto per gioco ma per carattere e passione, ha tenuto il campo grazie a Koulibaly e Di Lorenzo, ma comunque in compagnia di un mucchio di errori.
Alla fine ad Osimhen rimane la forza di volontà e il gomito, lo strappo in corsa sempre in solitario e il ripiegamento con finta e perdita del pallone per raddoppio avversario.