Napoli, viaggio nel nuovo San Paolo:
il cuore del mondo è per gli azzurri

Napoli, viaggio nel nuovo San Paolo: il cuore del mondo è per gli azzurri
di Marco Perillo
Lunedì 16 Settembre 2019, 10:21 - Ultimo agg. 10:23
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Sono tornato dopo 18 anni in curva. La curva B, quella di sempre. Una decisione presa all'ultimo momento, con un amico storico. La scusa è stata quella di ammirare il nuovo stadio San Paolo, di godere finalmente di nuovi seggiolini azzurri, posti numerati, maxi-schermi in un lato e nell'altro della struttura. Ci siamo decisi tardi, per cui abbiamo trovato soltanto biglietti per l'anello inferiore. Da lì si vede male, ma la curiosità era tanta e siamo andati lo stesso. E, già mettendo piede sugli spalti, abbiamo capito di avere fatto bene. Una marea azzurra macchiata di bianco e di giallo ci ha accolto. Il rinnovamento è notevole, sembra un altro stadio; un altro posto. È davvero il San Paolo? Sì che lo è. Ed è tutta un'altra cosa. Non solo una lavata di faccia. Persino il campo sembra più vicino del solito; sarà per via dell'effetto ottico dato dal manto erboso vicino alla curva e della pista di atletica azzurra. Tutto sembra più azzurro, più napoletano che mai.

CURVA INTERNAZIONALE
Ci siamo accorti che anche l'umanità dello stadio è cambiata. Non solo l'estetica. Ci siamo sorpresi di vedere attorno a noi, in quell'anello inferiore, quasi tutti stranieri. Diciott'anni fa non era così. Non se ne vedevano quasi mai. E invece c'erano, a frotte, tutti con le sciarpe e le maglie azzurre. Tanti giapponesi o cinesi, a Napoli per assistere al miracolo di San Gennaro. C'era un gruppo di ragazzone svedesi, in vacanza in città, che dopo aver visto la Cappella Sansevero e il lungomare hanno voluto immergersi nella realtà dello stadio. John ed Emma, invece, una coppia irlandese che si trovava qui e conosceva il Napoli grazie alla Champions. Alexandra e Theodoros, greci, sventolavano un bandierone del loro paese: ovviamente erano qui per Manolas. C'era uno sparuto gruppo di belgi, tutti pazzi di Mertens. E poco più avanti una colonia di polacchi, tutti vestiti di azzurro: non vedevano l'ora di applaudire Zielinski in campo, peccato per l'assenza di Milik.

 

Non mancavano tre argentini, nostalgici come noi di Diego e una decina di spagnoli, perché ce n'erano ben tre in campo. E all'improvviso ti accorgevi che tutto è cambiato in questi diciott'anni. Che Napoli è diventata una realtà internazionale, grazie al turismo, grazie alla Champions, grazie a una squadra che di italiani, in rosa, ne ha davvero pochi. Ci lamentiamo sempre, ma questo è un motivo di orgoglio. Erano lì, a tifare per gli stessi colori: come fossimo un'unica cosa, noi e loro. Uniti nella maglia azzurra, nella passione per una città e per una squadra che sono due elementi inscindibili.

IL TEMPO CHE CAMBIA
Una città e uno stadio che mutano profondamente, si rinnovano, si aprono al mondo. Il Napoli non è più solo la squadra dei napoletani: è di tutti. È una squadra del mondo. Diciott'anni fa non era per nulla così. Certo, diciott'anni sono il tempo di un neonato che diventa adolescente e prende la maturità, di acqua ne è passata. Eravamo in serie B allora, lottavamo per la serie A e in campo c'era un capellone goleador di nome Stefan Schwoch e non uno scugnizzo belga di nome Mertens (che noi osanniamo come Ciro). Eravamo frustrati, incattiviti, e ancora doveva arrivare il fallimento del 2004. Assistere a una partita in curva era una battaglia: in piedi, una baraonda, qualche rissa qua e là, per non parlare degli scontri fuori dallo stadio, una domenica sì e una no. Sabato a sorpresa la curva B era calma, non cantava. Non c'erano nemmeno le solite bandiere a sventolare. Tutto taceva. Perché la curva era a lutto per un ragazzo di 26 anni morto tragicamente. Tifava solo la curva A, lì di fronte. E così la sensazione di straniamento si amplificava. Perché accanto a noi e agli stranieri notavamo un'ultima cosa. Un dettaglio che mi colpiva ancor più profondamente: tantissime famiglie coi bambini. Anche piccolissimi. Tutti con le maglie azzurre, entusiasti, le bandierine in mano. E penso che pure questo diciott'anni fa era molto raro da vedere. E che quei bambini che diciotto anni fa non venivano allo stadio vuoi per la serie B, vuoi per l'insicurezza si mettessero a tifare per altre squadre. Oggi non è così. I bambini sono ritornati allo stadio. Sono loro la nuova linfa vitale del tifo partenopeo. E allora, al di là delle polemiche su chi guarda ancora in piedi la partita nell'anello superiore (chi ha frequentato le curve sa che è un malcostume difficile da estirpare) o delle proteste e dei mugugni nei confronti di una società che non è riuscita ancora ad agguantare uno scudetto, riflettevo su quante cose siano migliorate in questi anni. Perché se i bambini sono tornati in massa allo stadio e in curva, seppur nell'anello inferiore, Napoli e la sua gente hanno fatto davvero un grande passo avanti. E se gli pure stranieri ci amano e fanno il tifo per noi, allora vuol dire che abbiamo imboccato la strada giusta.
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