Bianchi e il messaggio a Maradona:
«Fermati o finirai come Monzon»

Bianchi e il messaggio a Maradona: «Fermati o finirai come Monzon»
di Francesco De Luca
Martedì 12 Maggio 2020, 16:01
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Maggio è il mese dei primi trionfi del Napoli, lo scudetto del 10 maggio 87 e la Coppa Uefa del 17 maggio 89. Entrambi vinti in panchina da un uomo del Nord che aveva e ha Napoli nel cuore dopo averla vissuta da calciatore, allenatore e dirigente. E non è un caso che Ottavio Bianchi abbia scelto maggio - giovedì 14 - per l'uscita dell'autobiografia «Sopra il vulcano: il campo, lo scudetto, la vita» (Baldini+Castoldi, pagg. 160, euro 16), scritta con la figlia Camilla, giornalista dell'Eco di Bergamo che ha raccolto i ricordi del padre in quella casa di Città Alta dove non vi è traccia del passato di chi ha trascorso mezzo secolo nel calcio: né un trofeo né una maglia, come ricorda nella prefazione Gianni Mura. Il giornalista di Repubblica, scomparso nello scorso marzo, era amico di Ottavio, che con tanti della categoria ebbe rapporti difficili quando stava seduto sopra la panchina del Napoli, anzi sopra il vulcano di quella città da cui pochi mesi prima dello scudetto aveva allontanato in fretta e furia la moglie e i figli. Accadde dopo l'eliminazione dalla Coppa Uefa a Tolosa, quando c'era chi incredibilmente chiedeva la sua testa. In quei giorni una tempesta aveva colpito Maradona, che scoprì in tv di essere diventato padre di Diego junior. Ottavio rivela a Camilla che la sera in cui scoppiò lo scandalo lui si presentò nella casa di via Scipione Capece per incontrare il capitano e la sua compagna Claudia: «Appurato che non si rischiavano né suicidi né omicidi tornai in ritiro».

Nel giorno della presentazione a Napoli, estate dell'85, un cronista chiese a Bianchi se il salto dalla provincia a Maradona non lo turbasse: rispose che si sentiva perfettamente a suo agio perché, dopo aver salvato Avellino e Como, si apprestava a guidare una squadra che aveva lottato per non retrocedere nel primo campionato con Diego. L'allenatore mise subito un argine tra sé e il mondo esterno, indossò quella corazza che lo avrebbe accompagnato per quattro anni. Con quella maschera affrontò un ambiente che aveva conosciuto quand'era centrocampista alla fine degli anni Sessanta: la Napoli ammaliatrice lo preoccupava e lo spiegò con chiarezza al presidente Corrado Ferlaino e al manager Italo Allodi nel segreto incontro milanese in cui vennero poste le basi per costruire la squadra dello scudetto. Ma quella maschera coprì a malapena la felicità di Bianchi nel giorno dello scudetto («Abbiamo fatto un buon lavoro. Sono soddisfatto», una manciata di parole al microfono di Giampiero Galeazzi appena finita Napoli-Fiorentina) e la sua ira un anno dopo, quando i cronisti gli chiesero di commentare il comunicato letto da Garella contro di lui, l'allenatore con cui gli ex campioni non avevano rapporti. Era furioso ma rispose con ironia: «Cosa faccio ora? Vado in albergo a mangiare».

Di quello scudetto perso nell'88 s'è detto tanto, anzi troppo. Quante perfide ricostruzioni. Le minacce della camorra per le scommesse? Un patto calcistico-industriale con Berlusconi? L'inizio della rivolta dello spogliatoio contro l'allenatore? Il crollo fisico del Napoli di fronte al vigore atletico del Milan? Bianchi dà questa interpretazione: «Quando la strada sembrava spianata e il risultato acquisito, è iniziata la corsa al rinnovo del contratto». L'ex allenatore («Ho lasciato questo mondo prima dei sessant'anni perché non era più il mio») aveva avvisato Ferlaino: «Appena vinto lo scudetto fate quello che volete, ma non prima: sarebbe estremamente pericoloso». Ma poi - spiega oggi alla figlia cronista - qualche giorno dopo vide il presidente annunciare in tv il rinnovo di Maradona e a quel punto lo spogliatoio implose, con altri calciatori che pretesero i prolungamenti anche dei loro contratti, mentre il capitano scivolava verso l'abisso. L'uomo più serio del clan argentino, il preparatore atletico Signorini, avvertì Bianchi: «D'ora in poi avrà grandi problemi con Diego». Il campione stava precipitando nell'abisso della droga. Per la prima volta l'allenatore rivela un loro duro confronto. «Un giorno, non ricordo cosa avesse combinato, gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile suonato, allo sbando. Vuoi proprio finire come Monzon? gli chiesi a muso duro». Monzon, uno dei miti argentini. Campione del mondo dei pesi medi, si rovinò dopo aver chiuso con la boxe. Fu condannato a 11 anni di carcere per avere strangolato la moglie Alicia. Uscito per buona condotta, morì a 52 anni in un incidente stradale: l'auto sbandò nella corsia di sorpasso, in quello schianto c'era tutta la sua folle vita. E Diego come reagì? «Lei ha ragione, mi rispose, ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull'acceleratore. In quel momento mi resi conto che non c'era niente da fare».

Bianchi non è rimasto affettivamente legato solo alla festa per lo scudetto vinto nell'87 ma anche alla manifestazione dei tifosi dopo quello perso nell'88: al San Paolo gridarono «Ottavio Ottavio» e «in cinquant'anni di calcio è il ricordo più commovente che conservo dentro di me». I rapporti con i napoletani sono stati di profondo rispetto e reciproca gratitudine. E le pressioni? Un giorno arrivò una telefonata anonima in hotel: «Faccia giocare...». Lui, quel calciatore, lo mandò in tribuna.

La mediocre aneddotica non c'è in questo bel libro, scritto a due cuori prima che scoppiasse la tragedia del Coronavirus, quella per la quale il 76enne mister Bianchi si è chiuso in casa tremando per le sirene delle ambulanze e pregando per i morti di Bergamo. Ottavio ricorda il suo primo giorno nel 66 a Napoli, tra traffico e cumuli di spazzatura. Questa città l'uomo del Nord l'ha sempre accarezzata, fin da quando era calciatore e viveva con i compagni Nardin e Micelli in un appartamento di via Petrarca. Poi arrivò la famiglia e, quando giunse il momento di fare le valigie perché così aveva deciso Ferlaino («Si liberò del sindacalista»: ma poi il presidente lo chiamò, quando giocava a Cagliari, affinché chiedesse a Gigi Riva di trasferirsi al Napoli), un amico gli disse: «Tornerai qui e vinceremo lo scudetto». La lezione di quegli anni da calciatore - al fianco di Altafini, Juliano e Sivori nel Napoli bello ma non vincente - gli sarebbe servita da allenatore. Spiegò ad Allodi che non sarebbe bastato Diego: «In quella incredibile città si passa dall'esaltazione allo scoramento in un battito di ciglia. La teoria del lavoro e del sacrificio come la intendo io non è mai stata di casa. Per ottenere un risultato si deve lavorare un anno, non una settimana. La squadra deve dipendere solo da me. La mia conduzione sarà terroristica».

Bianchi aveva avuto Pesaola come primo allenatore a Napoli e, quando tornò, lo incontrava a cena alla «Sacrestia». Il Petisso era un maestro di comunicazione, ma non funzionarono le sue lezioni con quell'allievo, sempre laconico con i cronisti. Nel libro mai citato Luciano Moggi, dg del Napoli dall'87 all'89: erano incompatibili. Ottavio ricorda ragazzi come De Napoli che lanciò ad Avellino e Fabio Cannavaro che gli fu segnalato nel 92 dal magazziniere Tonino Albano, suo ex compagno. Del periodo ad Avellino ricostruisce lo scontro con un temuto gruppo di tifosi, il clan dei macellai. Uno di loro, un giorno, mostrò la pistola negli spogliatoi: «Così non va, se le cose non cambiano sono guai». La squadra rischiava la retrocessione. Bianchi ebbe un sussulto: «Io vado via». Gli chiesero scusa e l'Avellino si salvò. E poi l'incontro con Antonio Sibilia, il padrone della squadra agli arresti domiciliari. L'allenatore andò a trovarlo in clinica e don Antonio, dopo aver chiesto ai due poliziotti che lo piantonavano di lasciarli da soli, accusò i giocatori: «Questi stronzi si vendono le partite».

A Napoli l'uomo del Nord ha vinto e ha ricevuto una lezione. «Il dono più grande: saper prendere la vita come viene, nel bene e nel male. E ho fatto mia la massima San Genna' futtitenne». Tra i ricordi di Camilla c'è la telefonata dagli spogliatoi del San Paolo il 10 maggio 87. «Campioni» le urlò il papà e la ragazza passò la cornetta alla madre: dagli occhi lucidi di Maria Mercede capì che mister Bianchi aveva finalmente tolto la maschera.
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