«Perché tutti quanti volete vincere la Champions il prossimo anno, vero. E magari anche la Coppa del mondo per club?!». Lo sguardo torna a essere fiammeggiante, con quel taglio pungente degli occhi che ormai è lo stesso di Diabolik (ha pure una disegno con Eva Kant nel suo ufficio). Il dado è tratto. L'ironia e il sarcasmo sono evidenti e la questione è tutta qui: l'asticella alzata alle stelle da Aurelio De Laurentiis. Tranquilli tutti, questo è proprio il quartier generale del Napoli, la squadra campione d'Italia dopo una rincorsa lunga 33 anni. Anche se magari pare di trovarci una realtà parallela, magari dopo una retrocessione in serie B perché l'aria di festa è altrove, non certo a Castel Volturno. «Non è una questione di tarparmi le ali, perché non voglio volare da nessuna parte. Non ho bisogno di ali per il mio futuro ma piuttosto di stivali. E cosa significa quello che ha detto De Laurentiis non lo so, non è certo inerente a quello che ci siamo detti quella sera a cena». Tradotto, più o meno: o resto ancora a Napoli e rispetto il contratto fino al 2024 o mi posso anche fermare un anno. Lucianone sospira di piacere e le palpebre diventano due fessure che sprizzano gioia solo quando mostra la pettorina modificata con la scritta «Campioni» con la stampa tricolore che mostra girando le spalle. «Io ci credevo, ci ho sempre creduto, feci scrivere “sarò con te”. Quando sono arrivato la situazione era quella che era, ora mi sembra molto differente». Quasi sempre parla come uno che sta dicendo addio, poi di tanto in tanto frena e fa una giravolta. Come quella finale, quando lascia trapelare che qualcosa può essere ancora fatto: «Se decidessi di ripartire, ripartirei a mille all'ora contro tutto e tutti».
Già, per Luciano Spalletti ci sta sempre qualcuno da una parte (lui, quasi sempre da solo) e qualcun altro dalla parte opposta.
Ci sono momenti di vera serenità. Come quando, sfidando la pioggia, inforca la bicicletta, indossa la giacca a vento, il cappellino e se ne va in giro per il Villaggio Coppola, subito dopo la conferenza. Non prima di aver incrociato i tifosi. «Lucia', ma la foto la facciamo pure il prossimo anno?». Lui ride e scherza. È a suoi agio solo con loro. «Parlare di quest'anno? Certo, lo farò. Dopo che l'avrà fatto il presidente». Lui, nel frattempo, si coccola i suoi eroi in maglia azzurra: «Mica era semplice vincere lo scudetto quando in tanti in estate ci davano all'ottavo posto. Adesso è diverso, è una squadra lavorata. Ho detto giorni fa che il Napoli avrà un futuro importante e ci credo, è così. È più facile lavorare in questa situazione che non quando sono arrivato io...». C'è l'Inter, che è il suo passato recente. La finalista di Champions, dove poteva esserci il suo Napoli. «Noi di stimoli ne abbiamo ancora molti, siamo fatti così. Dobbiamo battere l'unica squadra che non abbiamo ancora battuto in questa stagione. Ma i complimenti, oltre che a Inzaghi, li faccio anche alla Roma di Mourinho e alla Fiorentina di Italiano. Tutti, compreso io, traiamo vantaggi da questi risultati. Il livello qui è top, nel sentimento che si vive quotidianamente». Non ha senso fare l'elenco degli intoccabili. Forse è un elenco che non toccherà a lui fare. «Abbiamo vinto anche senza Osimhen e Kvara. Sono stato messo nelle condizioni di allenare una buona squadra e bene. È l'assieme che fa la squadra. Figurarsi se oggi a tre partite dalla fine vengo a fare il nome di qualcuno che non vorrei l'anno prossimo. Parlo di squadra in blocco. Di corpo d'assieme».