Robot e macchine intelligenti potrebbero sostituire fino a 7 milioni di lavoratori in Italia. A rivelarlo è il primo studio italiano realizzato dal Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento, che ha analizzato l’impatto dell’automazione e della tecnologia sulle 800 professioni censite dall’Istat, il totale del comparto lavorativo.
Sandro Trento, docente di economia, lei è uno dei relatori dello studio. Come si è svolto?
«Esistono due approcci. Il primo che fa riferimento alle occupazioni, compie una stima su quanto sia probabile che queste siano sostituite dalle macchine; l’altro prende in esame le mansioni. Per semplificare, il primo sostiene che il cassiere del supermercato sarà sostituito, il secondo che alcune sue mansioni saranno svolte dalla macchina».
E come determinare quali lavori saranno automatizzati?
«Le mansioni routinarie sono facilmente rimpiazzabili, mentre quelle in cui sono necessarie intelligenza manipolativa, creativa e sociale sono meno sostituibili. Quei lavori in cui bisogna avere la percezione di un oggetto, identificare esteticamente ciò che si sta manipolando e pensare in modo creativo per risolvere dei problemi sono a basso rischio di automazione. Pensiamo al lavoro che svolge il cuoco: non c’è una macchina che può assaggiare il cibo. E ancora, alle attività in cui bisogna prendersi cura delle persone, come infermieri e badanti. O infine risolvere controversie, gli avvocati».
Cosa è emerso dallo studio?
«Abbiamo stimato che l’automazione potrebbe portare alla sostituzione di un minimo di 4 ad un massimo di 7 milioni di posti di lavoro, il 18% e 33% dei lavoratori».
C’è differenza di occupazione tra uomini e donne?
«Gli uomini corrono più rischi, perché le donne sono occupate in settori come la cura della persona, l’insegnamento e il manifatturiero, ma più nell’agroalimentare e meno nella produzione, in cui il rischio è molto basso ed oscilla tra un milione e mezzo e due milioni, cioè tra il 16 e il 25%».
Si tratta di una stima teorica. La realtà?
«La situazione italiana è diversa da quella europea ed americana, perché l’85% di imprese sono di piccole dimensioni con meno di 10 dipendenti; questo riduce la possibilità di automazione, perché sono le aziende grandi ad investire di più in tecnologia.
Quindi l’Italia è salva?
«Non del tutto, perché siamo indietro tecnologicamente rispetto ad altri Paesi, come l’America; l’ondata tecnologica sta arrivando e la trasformazione potrebbe verificarsi entro il 2030».
Rischiano di più i lavoratori a maggiore o minore qualificazione?
«La polarizzazione tra alto e basso rischio di automazione non sempre è collegata al titolo di studio. Cameriere, parrucchiere, idraulico a medio-bassa qualificazione sono a minor rischio rispetto ai contabili perché le mansioni dei secondi sono gestibili da algoritmi. Anche i lavori creativi rischiano poco, ma studiare non basta più, serve una formazione permanente che tenga conto della tecnologia robotica».
La soluzione ad una disoccupazione crescente?
«La disoccupazione tecnologica è sempre legata ad un mancato sviluppo del sistema formativo. Ma il problema è la velocità dei due processi, se la distruzione dei posti è più veloce della formazione, difficile riconvertire l’occupazione».