Adriana Albini, la scienziata italiana tra le cento donne più influenti al mondo: «Ma In italia i soliti uomini»

Adriana Albini, la scienziata italiana tra le cento donne più influenti al mondo: «Ma In italia i soliti uomini»
di Nando Santonastaso
Giovedì 3 Dicembre 2020, 08:30 - Ultimo agg. 19:35
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Per la Bbc, lo storico network televisivo britannico, è una delle 100 donne più influenti del mondo, l'unica italiana. Adriana Albini, 65 anni, milanese di origini veneziane, docente di Patologia generale all'università di Milano-Bicocca, fa parte dell'elenco di «coloro che stanno guidando il cambiamento nell'anno sconvolto dalla pandemia». E quando le si chiede perché c'è anche lei in questo club sicuramente molto esclusivo, risponde con schiettezza: «Faccio parte del Board of Directors dell'American Association for Cancer Research, un'associazione per la ricerca sul cancro che conta migliaia e migliaia di iscritti, capace di fare convegni con 60mila partecipanti, che insomma ha voce in capitolo. In Italia è decisamente più difficile ma far parte dell'elenco della Bbc può diventare un'opportunità anche per segnalare le carenze che impediscono il riconoscimento del merito femminile», dice. E aggiunge: «Essere influenti qui è molto faticoso per una donna. Pensi agli spazi di informazione sulla pandemia, ai talk show televisivi in particolare: a parte un paio di scienziate donne, sono gestiti quasi tutti al maschile, con gli stessi nomi. Per poter essere influente ci vuole cioè un sistema che ti permetta di farlo».

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Come utilizzerebbe le risorse europee del Recovery Fund in un'ottica non basata solo sull'emergenza ma sulla prospettiva, su una visione del Paese del futuro?
«Non si può negare l'esistenza drammatica di tanti problemi economici nel tessuto sociale, con l'impoverimento di quanti sono impegnati in attività oggi sostenute dai vari ristori e in assoluto i grossi disagi di chi fa molta fatica ad andare avanti.

Ma io mi auguro che il Paese abbia imparato da questa terribile esperienza, che sia pronto ad esempio ad affrontare la prossima pandemia che quasi certamente arriverà. E che soprattutto dal punto di vista tecnologico faccia tesoro della capacità di connessione che abbiamo dovuto mettere in campo in questi mesi di isolamento, totale o parziale. Lavorare in smart, comunicare con i sistemi informatici può essere utile anche allo sviluppo sociale ed economico del Paese».

Ma la rinnovata attenzione alla scienza, che fino alla primavera scorsa sembrava avere rioccupato il posto che le spetta nei confronti della politica, è oggi ancora tale?
«Credo proprio di sì. La cosa più incredibile ma anche un po' triste è che i ricercatori italiani sono tra quelli che pubblicano di più e meglio nel mondo pur avendo meno risorse e poche strutture. Un italiano che va a lavorare negli Stati uniti, se fa carriera, diventa subito tra i più bravi al mondo perché ha imparato a fare le cose dal nulla».

Allora puntare sulla salute anche in termini di prevenzione può essere la missione quasi inevitabile per il nostro Paese?
«Io temo che l'Italia continuerà a non investire tanto nel settore della salute, nonostante il fatto che dal punto di vista tecnologico siamo pericolosamente indietro. Ma è proprio nella prevenzione che abbiano chances imbattibili: c'è una cultura storica nell'alimentazione sana e nell'attività fisica che potrebbe farci diventare testimonial europei della prevenzione. Lei pensi solo alla nostra maggiore sopravvivenza ad un tumore rispetto a Paesi anche più avanzati tecnologicamente. Insegnare la prevenzione al resto dell'Europa sarebbe una scelta vincente».

Se lei fosse il premier Conte e dovesse stabilire delle priorità di spesa dei soldi europei, a cosa penserebbe subito?
«A realizzare dei campus in cui medicina e ricerca lavorino insieme, fianco a fianco, individuando subito le aree, gli spazi fisici cioè in cui si possano realizzare. Qui a Milano c'è l'area di Sesto San Giovanni, ad esempio, dove un tempo sorgevano le acciaierie Falck e dove da tempo si parla di costruirci la città della salute e della ricerca, con ospedali, laboratori, infrastrutture di ricerca avanzata. Qualcosa di simile sta sorgendo anche nell'area della Fiera, a Rho, ma potrebbero sorgere dovunque in Italia. L'obiettivo è di coniugare un'assistenza all'avanguardia con la possibilità di fare ricerca a stretto contatto, lavorando cioè sui pazienti. Io investirei sulla ricerca, sulla diagnostica informatica e sulla medicina territoriale, in un'ottica tecnologica: abbiamo bisogno di un sistema sempre più informatico, ad esempio, per le diagnosi che impedisca le liste di attesa. Così se uno si ammala di cancro sappiamo già cosa fare prima che arrivi al Pronto soccorso».

La pandemia ci sta facendo dimenticare gli altri ammalati?
«Intanto la pandemia non deve farci dimenticare l'esigenza di curare l'ambiente. A Napoli collaboro con la stazione zoologica Anton Dohrn ad un progetto di possibili farmaci di origine marina, a partire dalle alghe, perché la salute degli oceani e dell'agricoltura riguarda anche la salute umana. Il Covid ci insegna che avere malattie croniche peggiora gli stili di vita: ipertensione, diabete, problemi cardiovascolari sono quelli che hanno aumentato la mortalità. Se riuscissimo a controllare meglio queste malattie, specie ora che l'invecchiamento della popolazione aumenta, avremmo dimostrato che la cultura della prevenzione funziona, che è possibile. Per questo non bisogna dimenticare le altre malattie: se abbiamo passato la soglia dei 50mila morti per l'epidemia da Covid, arriveremo comunque a 180mila morti di tumore in un anno e a 240mila per malattie cardiovascolari. Questi numeri non compaiono negli editoriali delle prime pagine dei giornali ma non si possono ignorare. Mai».

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