Farmacista: «Così ho sconfitto
il coronavirus
e vi dico: siamo noi il pericolo»

Silvia Pagliacci
Silvia Pagliacci
di Italo Carmignani e Egle Priolo
Domenica 12 Aprile 2020, 12:01 - Ultimo agg. 12:32
5 Minuti di Lettura
PERUGIA «Ho sempre creduto che nella vita dovessi essere positiva... ma mi sa che stavolta ho esagerato! Sono a casa e ringrazio Dio per la salute ritrovata». Silvia Pagliacci ha comunicato così, su Facebook, di essere stata una paziente Covid e, soprattutto, di essere guarita e tornata finalmente a casa dopo un mese d'incubo. Un mese in cui non ha dimenticato la farmacia a Valfabbrica gestita con la sorella e gli impegni da presidente di Federfarma Perugia e l'incarico nazionale come presidente delle settemila farmacie rurali di Sunifar. Impegni che, nonostante febbre e tosse, ha continuato ad onorare anche dal letto degli ospedali di Perugia e Pantalla in cui è stata ricoverata. Ma il pensiero fisso è stato soprattutto quello di essere utile. Ai medici per descrivere i sintomi che potessero essere d'aiuto per la diagnosi di altri pazienti. Alla sua famiglia, con un'altra sorella ricoverata in rianimazione e il compagno e la figlia da tutelare. Alla sua comunità, mantenendo - e anzi rafforzando nonostante tutto - i servizi della sua farmacia, l'unica del centro di Valfabbrica. Insomma, una potenza. Presidente, è tornata a casa e ora sta meglio. Come è iniziato tutto?
«Sto aspettando i risultati dell'ultimo tampone, ma sto meglio. C'è ancora un po' di tosse, ma quella dicono non passerà subito. I primi giorni di marzo avevo avuto diversi appuntamenti in Federfarma dove ero stata molto sensibilizzata sul problema e sui giusti dettami di legge, per quanto riguarda le distanze di sicurezza, le sanificazioni e tutte le attenzioni da seguire in farmacia, unico presidio sanitario nei piccoli paesi. Tanto che il 7 marzo, ultimo giorno dietro il bancone, sono andata a lavorare già con la mascherina e i guanti. È così, sono certa, che ho stoppato la catena di contagio».
Da dove è partita?
«Il mio compagno è stato contagiato andando a lavorare a Orvieto dove, sappiamo oggi, c'è una delle situazioni più compromesse. Ma allora non lo sapevamo e quando il 9 marzo lui ha iniziato ad avere un po' di febbre ho annullato tutti gli appuntamenti, perché avevo paura di essere io il pericolo. Ecco. Questa è un'altra cosa che deve scrivere. Tutti pensiamo a stare attenti agli altri che potrebbero contagiarci, ma in realtà dobbiamo pensare che potremmo essere noi gli infetti, così da preservare noi stessi e chi ci sta intorno. Io l'ho fatto e solo così non ho contagiato nessun altro. Poi l'11 la mia febbre mi ha messo in allerta e allora ho chiamato per essere sottoposta a un tampone. Risultato positivo». Come è stato leggere quel referto?
«Una doccia fredda. C'era già mia sorella ricoverata in Rianimazione... E se da una parte ero felice per l'isolamento che mi ero autoimposta, dall'altra ero preoccupata per la mia famiglia. Senza considerare che dovevo pensare a mettere in sicurezza l'attività della farmacia: su sei persone che ci lavorano, quattro sono state messe in quarantena inattesa dei tamponi, poi risultati negativi. Sono rimasti un farmacista e un magazziniere, asintomatici, che hanno portato avanti il lavoro a costo di grandi sacrifici. Sono stati bravissimi. Mentre io a casa ho dovuto persino difendere l'immagine della farmacia, insomma sono stati momenti di grande stress».
E pensava a tutto questo invece che alla sua salute?
«Sì, perché il Covid-19 è un virus subdolo, silente. Io nonostante tutto mi sentivo bene, finché il 19 marzo sono crollata, tra febbre e tosse. In ospedale hanno detto “polmonite” e sono stata ricoverata al Santa Maria della Misericordia. E poi trasferita a Pantalla. Sono tornata a casa solo venerdì. Praticamente un mese d'incubo».
E come l'ha vissuto?
«Finché si sta fuori hai la percezione di essere un untore. Una volta in ospedale mi sono sentita presa in carico. Curata. Ho dei flash, come quelli dei “ghostbuster” che ti ripuliscono prima del ricovero. Mi hanno accudito, curandomi a rischio della loro stessa salute. Medici e infermieri sono stati eccezionali. Ma non dimentico i farmacisti ospedalieri, che aiutano i dottori nella terapia, nel tradurre i protocolli. Bravissimi. Tutti bravissimi».
Anche perché, in effetti, lei è stata una delle prime pazienti positive...
«Esatto. Mi hanno sottoposto a terapie di ossigeno e poi idrossiclorichina, ma all'inizio chiaramente era tutto confuso. Anche per questo a tutti i medici che mi hanno vista ho ribadito i miei sintomi, ho spiegato come mi sentissi. Perché la mia esperienza potesse essere utile alle diagnosi successive. In casa ci siamo accorti, per dire, della mancanza di gusto e olfatto quando ancora non ne parlava nessuno. E io ho voluto dirlo a tutti. E nel frattempo ho studiato, ho letto i protocolli, mi sono informata. E tranne nei giorni in cui sono stata peggio, ho cercato di essere sempre presente per i miei colleghi. Abbiamo cercato insieme informazioni, per elaborarle, per tranquillizzare i clienti. Noi farmacisti siamo stati i primi a mettere le barriere in plexiglass, a dire di usare i guanti, a pensare alla consegna a domicilio dei farmaci o a spiegare che la mascherina migliore è stare a casa. Sono orgogliosa del loro impegno».
E adesso che è fuori, che consigli dà?
«Capisco che è difficile, ma adesso non bisogna mollare. E si deve restare a casa. Il sole? Lo prendiamo sul balcone o in finestra. Appena arrivata in ospedale mi hanno messo in camera con un uomo, ma siamo in guerra mi sono detta e mi sono affidata ai medici. Dopo, però, ho avuto come compagne di stanza Angela e Vilma, che mi hanno aiutato nei momenti di buio assoluto: con loro facevamo due chilometri al giorno, calcolati col contapassi, restando in una camera d'ospedale. Bene, se io - positiva e ricoverata - sono riuscita a mantenermi in forma camminando in una stanza e tu che hai la sicurezza di non essere rimasto contagiato perché devi rischiare la tua salute per una passeggiata? Restate a casa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA