Maternità negata sotto Covid, ma la giovane facchina batte pure l'Ispettorato del lavoro

Maternità negata sotto Covid, ma la giovane facchina batte pure l'Ispettorato del lavoro
di Egle Priolo
Martedì 24 Novembre 2020, 08:00
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PERUGIA - Alessandra rimane incinta e partorisce. Il datore di lavoro le riconosce il diritto a restare a casa per la maternità e l'Ispettorato del lavoro no. Anche se lei è impiegata come facchina, un mestiere duro faticoso e poco compatibile con un post gravidanza. Anche se è un diritto già riconosciuto per il suo primo figlio. Anche se di solito è l'Ispettorato a tutelare i dipendenti contro le “proprietà”. Una situazione paradossale finita davanti addirittura a due giudici, vista la decisione dell'ente di opporsi alla prima sentenza favorevole ad Alessandra. Una 35enne tosta che ha potuto per fortuna contare sul sostegno del datore di lavoro e soprattutto sulle sue ferie per riuscire a stare accanto alla sua bambina ma soprattutto senza rischiare la sua salute: non solo per i pesi sollevati, ma anche per la pandemia, visto che questa storia parte a marzo, esattamente quando il Covid ha iniziato a fare paura.

A marzo infatti Alessandra Lecce, dipendente a tempo indeterminato di una cooperativa che lavora in appalto per uno dei colossi nazionali che si occupano di logistica e trasporti, vede il sorriso della sua seconda bimba. Come accaduto la prima volta, fa richiesta dell'interdizione post partum, una misura prevista da un decreto legislativo del 2001 che prevede il divieto di rientro al lavoro fino al compimento del settimo mese di età del figlio per le lavoratrici che svolgono attività di trasporto e sollevamento pesi, a tutela della salute della donna. Una norma talmente importante e significativa (anche se non tutte le lavoratrici del settore purtroppo ne sono a conoscenza) che la sua violazione è sanzionata con l'arresto fino a 6 mesi.
Comunque, il datore di lavoro riconosce il diritto di Alessandra, da marzo a ottobre, mentre invece l'Ispettorato dice no. «Inaspettatamente, asserendo una presunta mancanza dei requisiti previsti (unico requisito previsto è svolgere attività di sollevamento pesi), senza effettuare alcuna attività istruttoria ivi compreso l'accesso sul luogo di lavoro e senza valutare i maggiori rischi collegati alla diffusione del Covid. Nonostante, lo stesso ufficio avesse riconosciuto tale diritto nella prima gravidanza», come ricorda l'avvocato Nunzia Parra (Studio Brusco & Partners) a cui Alessandra si è rivolta per vedere tutelate le proprie ragioni. A luglio, le due impavide professioniste portano l'Ispettorato del lavoro davanti alla sezione Lavoro del tribunale: il giudice Giampaolo Cervelli dà loro ragione, ribadendo «l’esposizione della ricorrente al rischio lavorativo della movimentazione manuale dei carichi» e condannando l'Ispettorato al pagamento delle spese legali. L'amministrazione presenta addirittura reclamo contro l'ordinanza, ma perde nuovamente, con il collegio presieduto dal giudice Teresa Giardino che giudica «non persuasivo il tentativo del reclamante». Insomma, battaglia finita anche se dopo otto mesi. Nei quali Alessandra non è andata a lavorare sfruttando le sue ferie, i permessi, la banca ore e soprattutto il supporto del datore di lavoro che comunque non l'avrebbe fatta tornare in sede neanche nelle more del giudizio.
Non ha perso nulla, neanche lo stipendio pieno, ma non ha neppure vinto, si dirà. «No, ho vinto l'esigibilità di un diritto», dice lei con forza.

Ha vinto una battaglia per le donne, ha vinto un “precedente”. Che nel mondo delle persone sempre pronte a difendere i diritti di tutti dalle storture - come Alessandra Lecce e l'avvocato Nunzia Parra - vale molto più di un risarcimento.

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