Gli 80 anni di Sepe, la lunga missione tra le piaghe della città dolente

di Angelo Scelzo
Mercoledì 31 Maggio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Ottant’anni, quindici da cardinale, 25 da vescovo, una vita da prete. Tutto il resto della biografia di Crescenzio Sepe, arcivescovo emerito di Napoli, è una lunga nota a margine, che completa e arricchisce una storia tuttora in corso. Con un capitolo nuovo, il regalo di compleanno tagliato su misura, lo “scudetto sulla tonaca”, non proprio un paramento liturgico ma certo un tocco di profano che non arriva però a profanare. Addosso a Sepe men che mai, perché se l’abito non fa il monaco, figurarsi un cardinale, lo stemma di Napoli cucito addosso dai tempi lontani del seminario prima di approdare alla cattedra di Sant’Aspreno. Quella è stata la via della vocazione come chiamata, un sì all’altare per una consacrazione di vita. Un altro tipo di vocazione, certo meno impegnativa, si è fatta poi strada nella vita del “monsignore napoletano“ – copyright Giovanni Paolo II-, esplosa poi al contatto diretto con la materia, una volta avuta sottomano. A Napoli è difficile fare a meno del Napoli. 

Sepe non ne ha mai avuto l’intenzione e, infatti, una volta insediato a Donnaregina, ha preso a frequentare non solo il San Paolo, poi detronizzato - ma forse Lui per primo, l’apostolo delle genti, avrà capito - e ha quindi incrementato la (pia) pratica del ritiro, raggiungendo la squadra in estate, impegnata nella preparazione precampionato a Dimaro, dal vicino santuario-eremo di Pietralba. “Ritiro” era anche quello del cardinale con una trentina di preti della diocesi, un modo per “fare squadra“ e trovare il passo e la misura giusta per gli impegni pastorali.

È stato proprio un cardinale sul campo. Ora che, al compimento degli ottant’anni, gli è precluso l’ultimo passo - l’ingresso alla Sistina per il conclave, quando sarà - un abbozzo di bilancio si può forse tentare. E per delinearlo almeno per sommi capi, occorre partire proprio dal bivio tra piazza e palazzo che anche a un porporato, alla fine si pone. È popolare a Napoli un detto che interpreta a suo modo la reale gerarchia di chi conta davvero: “tre song ‘e putient, ‘o papa, o re e chi nu ten niente”.

Sepe è fuori dalla partita, ma non del tutto: un cardinale è appena sotto il papa e come principe della chiesa - così erano chiamati una volta - la parentela, anche se un po’ alla larga virtualmente esiste anche con la casa reale. Resta il fatto e “nun tenè niente” che riferito a un cardinale è forse un po’ estremo. Ma non si può dire, al contrario, che Sepe con la povertà e con i poveri non abbia stretto un rapporto. 

A Napoli è difficile fare a meno della povertà, è un’immancabile compagna di viaggio nella vita e nella storia della città. è letteratura, l’ è colore, in realtà è proprio la povertà il vero emblema di Napoli, condanna e ricchezza allo stesso tempo, gli stenti preservati dalla deriva della miseria, e indirizzati verso il percorso virtuoso di un’inveterata nobiltà d’animo. Sepe non ha avuto bisogno di scegliere. Si è trovato subito dalla parte giusta di un città che aveva lasciato per seguire una vocazione, e dove è poi ritornato non per seguirne un’altra, ma per completarla, e dare il senso compiuto a un cammino che l’ha portato lontano. I primi passi, anzi la prima via, una volta ordinato sacerdote, è stata quella diplomatica, ultima tappa a Brasilia, al seguito del nunzio, poi diventato cardinale, Mozzoni. Ma, seppure da cosi lontano, in “Segreteria di Stato” si accorsero subito di quel monsignore napoletano che, senza stare a guardare l’orologio, lasciava sempre la scrivania sgombra di pratiche. Mai lasciarsi scappare un napoletano stakanovista. E così fu che per Sepe si aprirono le porte delle Terza Loggia, e subito in un posto già importante, l’Ufficio Informazioni e Documentazione, diventato strategico nel pontificato di Giovanni Paolo II, il comunicatore per eccellenza. 

Senza mai muoversi dalla Terza Loggia, il monsignore napoletano cominciò a scalare altre tappe: fu in questo ruolo che accompagnò Wojtyla fin dentro casa a Carinaro durante la visita in Campania che aveva largamente contribuito a preparare. Poi la nomina vescovile, tutt’altro che inaspettata, come segretario alla Congregazione del Clero.

C’era però alle porte il Grande Giubileo del Duemila. E a chi affidare se non al monsignore napoletano la guida operativa di quel grande evento con il quale Giovanni Paolo II accompagnò l’umanità e la chiesa a varcare la soglia del Terzo millennio? Non si ricorda, insieme con il Concilio, un tempo di chiesa più significativo ed esaltante. Raduni oceanici, come la Giornata mondiale della Gioventù a Tor Vergata, e straordinari appuntamenti di fede, come la commemorazione dei Nuovi Martiri al Colosseo, e il pellegrinaggio giubilare di Giovanni Paolo II in Terra Santa. E un ininterrotto calendario di Giornate, fino alla solenne chiusura delle Porte sante nelle 4 basiliche patriarcali. La “regia” di Sepe spazzò via a poco a poco per l’intensità con cui ogni evento fu vissuto, anche l’immagine un po’ posticcia del vescovo-manager più attento al profilo organizzativo che a quello spirituale. 

L’esperienza di quel Giubileo, per quanto irripetibile, Sepe l’ha poi riproposta a Napoli, una volta che Benedetto XVI, succeduto a Giovanni Paolo II, gli prospettò il passaggio da Propaganda Fide a Napoli. Quattro anni prima del Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco nel 2015, Napoli anticipò anche il tema e fece vivere alla diocesi la memoria viva e attiva di tutta la grande trama di carità, via via estesa a tutta la città. Era un metodo e un’attitudine, la chiesa che si muoveva e perlustrava il territorio alla ricerca dei poveri e degli ultimi della fila; la chiesa che non aspettava chi bussasse alla sua porta, ma era pronta a farsi incontro, ad aprire quante più strade possibili alla solidarietà e alla condivisione. Francesco l’ha poi chiamata . Ma il modello Napoli, con Sepe era già all’opera. Ed era fatto di opere. E nei diversi campi, in quello del disagio o della disabilità, della maternità difficile, dell’abbandono, senza contare la devianza, i bambini di strada, i “ muschilli” sottratti alla rapacità della malavita organizzata. La rete che la chiesa di Sepe ha esteso contro il malessere della città è ancora uno dei capisaldi nella lotta a chi cerca, con la violenza, di frenarne lo sviluppo. Non è mai possibile mettere il punto a imprese di questo tipo, ma la strada tracciata è ampia e offre al nuovo Pastore della diocesi, don Mimmo Battaglia, un campo d’azione chiaro e ben delineato.

Gli ottant’anni di Sepe, e si può dire tutta la sua straordinaria esperienza, convergono ora in un punto. Napoli, la sua terra, è stata anche il punto di arrivo di un esemplare percorso ecclesiale: qui Sepe ha investito alla fine, quasi facendola “esplodere” a contatto con una realtà così viva e complessa, una pastoralità forte e prorompente. I paramenti da cardinale non hanno mutato la fisionomia del sacerdote. S’è visto che, al suo ritorno, il giovane seminarista di un tempo non era venuto a prendere posto tra le fila, piuttosto affollate, delle autorità cittadine. Il primo elemento di bilancio da mettere in conto, per questi ottant’anni è che Sepe ha amato questa città e ha dedicato tutto se stesso alla sua chiesa. Continua a farlo anche adesso perché a un vero un uomo di chiesa, prete o cardinale, la pensione è sempre preclusa. 

Ai commiati si usa spesso l’espressione di “pastore generoso e zelante”: basterebbe come formula di elogio, se non fosse che quel generoso finisca per essere in qualche modo limitativo. Nei suoi 14 anni sulla cattedra di Sant’Aspreno, Sepe ha indicato alla diocesi le linee di un progetto pastorale a lungo termine; in pratica la visione di una città proiettata oltre gli affanni e le criticità del momento. Niente analisi a tavolino, ma la sapienza di una cultura della vicinanza e della prossimità con tutti, a partire dai meno avvantaggiati. È stato sempre difficile vedere il cardinale di Napoli senza gruppi di persone o addirittura una folla intorno. Ognuno sapeva di poterlo avvicinare e potergli parlare, certo in napoletano e curandosi poco dell’eleganza lessicale. Ma il terreno di Sepe era proprio quello di una popolarità sana e verace, fatta inoltre di gesti e di sguardi. O perfino di occhiate d’intesa. Lui ha capito Napoli e Napoli l’ha ricambiato. Un prete è per sempre.

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