Trent’anni fa, mentre la mafia studiava come attenuare le conseguenze del maxi-processo, la camorra ci provava con il progetto di dissociazione che si rifaceva a una strada giudiziaria utilizzata con i terroristi. Quasi di soppiatto, la vicenda fu accennata in una delle tante ordinanze cautelari partorite dalle indagini sulle dichiarazioni del “Buscetta campano”: il pentito Pasquale Galasso. Nell’atto giudiziario, si parlava del ruolo di don Giuseppe Riboldi vescovo di Acerra e dell’allora sottosegretario alla Giustizia, Domenico Contestabile, sull’ipotesi dissociazione. Cosa avvenne? Ci fu chi pensò che, come per il terrorismo, anche per i camorristi si potesse introdurre nelle norme la figura del dissociato: mi auto accuso di tutti i miei crimini, ma non coinvolgo altri, ricevendone ugualmente in cambio benefici sulla pena. Si trattava però di una deviazione della politica giudiziaria attuata in pieno dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, con la completa applicazione della legge sui collaboratori di giustizia che prevedeva, e prevede, contratti dei pentiti tipo Stati Uniti. Fu Saverio Senese, avvocato di sinistra e allora difensore dei fratelli Moccia, tra i primi penalisti a credere a questa soluzione giuridica. Angelo Moccia, boss del clan Alfieri ad Afragola, si dichiarò dissociato. Lo fece anche Pasquale Loreto, del clan Pepe vicino ad Alfieri in provincia di Salerno, ma l’idea si diffuse anche tra gli affiliati del clan casertano dei Casalesi. Il 17 febbraio 1994 furono fatte trovare delle armi nel garage di fronte al Tribunale di Salerno. Un segnale di disponibilità e buona volontà. Nell’ipotesi dissociazione, venne coinvolto don Riboldi che se ne fece sostenitore, poi il progetto fu illustrato anche al sottosegretario Contestabile che ne accennò al ministro della Giustizia, Giovanni Conso. La Procura di Agostino Cordova, con in prima fila Paolo Mancuso, allora nella sezione distrettuale antimafia e oggi assessore comunale della giunta Manfredi, che gestiva alcune di quelle inchieste, disse no a quella ipotesi. Sostenne: la dissociazione non è ammissibile, per i camorristi esiste solo la possibilità di collaborare pienamente con la giustizia. Intanto, i clan se la prendevano con i familiari dei pentiti: vennero uccisi il fratello di Dario De Simone e di Mario Pepe.
Il pentito
Nove anni fa, il pentito Dario De Simone dichiarò di avere parlato del progetto della dissociazione anche all’onorevole Nicola Cosentino di Forza Italia.
Don Riboldi, invece, diede un’altra versione su quanto era accaduto e dichiarò al Mattino: «Ero convinto che la dissociazione potesse mettere fine a tanti morti. Presi contatto con i capi camorra di allora, sollecitai un loro pentimento, una loro dimostrazione di resa totale». E aggiunse: «I magistrati pensarono ad un calcolo criminale e mi attaccarono. Ci rimasi male, ero in buona fede. Il progetto fallì per la posizione contraria della magistratura».
Il bis
Dopo il precedente storico del 1994, abortito per l’opposizione della Dda napoletana, di dissociazione ripresero a parlare anni dopo altri affiliati di camorra. Come Cesare Pagano, uno dei capi dei cosiddetti scissionisti nella guerra di Scampia, che in uno dei suoi processi d’appello dichiarò in aula, dopo aver prima ammesso di essere stato il mandante di alcuni omicidi: «Chiedo perdono alle famiglie e mi dissocio dalla camorra». E non fu un caso che Pagano fosse difeso dall’avvocato Senese, che aveva realmente creduto anni prima nell’ipotesi dissociazione quando fu fatta propria da Moccia. Sull’atteggiamento del capoclan Cesare Pagano, prese posizione il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, oggi procuratore nazionale antimafia, che avvertì:«“La dissociazione è un tema con cui mi misuro da molti anni più di 25 anni e che in questi mesi si ripropone. Abbiamo i capi delle consorterie criminali che scrivono contemporaneamente lettere con cui annunciano la loro volontà di dissociazione». E aggiunse: «La natura del patto commesso nella realizzazione di un reato rende poco riconoscibile il meccanismo della dissociazione».
La storia della camorra si ripeteva. Ma quella del 1993 divenne quasi una strategia precisa di più capi di clan allora strutturati e radicati in diversi territori campani. Lo ricordò ancora il pentito De Simone: «Le organizzazioni criminali campane allora si sarebbero arrese. Tanto che facemmo trovare a Salerno nel 1994 un'auto piena di armi. A tenere i contatti con i nostri referenti era il clan Moccia di Afragola, che aveva rapporti molti in alto sia con la politica romana sia con la Chiesa. Noi dovevamo consegnare le armi, ma in cambio avremmo avuto un alleggerimento sulle leggi, niente ergastoli e niente confische, e intanto continuavamo le cose nostre. La cosa saltò anche perché Francesco Schiavone detto Sandokan non accettò: disse che lui, allo Stato, non voleva consegnare neanche un temperino».
Fu una sentenza di 22 anni fa a sconfessare la scelta dichiarata della dissociazione. Nel novembre del 2000, la Corte di Assise di Napoli condannò i fratelli Angelo, Luigi ed Antonio Moccia per aver promosso ed organizzato un’associazione camorristica ad Afragola «fino al 1998», non riconoscendo quindi alcuna validità alla dissociazione dichiarata, ritenendo invece che la dissociazione di Angelo Moccia «fosse solo apparente». Una questione e una strada al centro di polemiche. Un altro pezzo di storia della camorra degli ultimi 30 anni.
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