Lucky Luciano e il giallo della morte all’aeroporto di Capodichino di Napoli

Lucky Luciano e il giallo della morte all’aeroporto di Capodichino di Napoli
di Gigi Di Fiore
Venerdì 18 Febbraio 2022, 13:25 - Ultimo agg. 21:46
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Sono passati 60 anni. Era il 26 gennaio 1962, quando all’aeroporto di Capodichino di Napoli venne trovato morto Lucky Luciano. Un nome che contava, negli scenari della mafia americana e siciliana. Un boss, in grado di controllare il traffico di droga attraverso canali diversi, dai solidi rapporti con tutti i capi mafiosi negli Stati Uniti come in Sicilia. Il corpo senza vita di Salvatore Lucania, detto Lucky, era dinanzi l’ingresso dell’aeroporto. Poco prima, il boss aveva preso un caffè al bar in attesa dell’arrivo di qualcuno. La sua morte rimase un mistero. Ma l’allora giovane medico legale Alfonso Zarone, incaricato dalla Procura di una prima ispezione sul cadavere, mi raccontò nel 2004 per il libro “La camorra e le sue storie”: «Allora gli esami tossicologici non erano così progrediti come sarebbe stato negli anni successivi. I miei colleghi chiusero subito il caso, stabilendo che la morte era dovuta ad un infarto. Esistevano dubbi che, con gli strumenti allora a disposizione, non era possibile verificare. Ricordo però una circostanza curiosa. All’obitorio, un usciere mi disse che si era presentata una donna che, dichiarandosi moglie del defunto, chiese di portar via la cintura del marito, che era piuttosto voluminosa. L’usciere gliela consegnò senza sospetti, ma dentro potevano esserci nascosti soldi o droga. Non si seppe mai chi fosse quella donna».

La storia

Salvatore Lucania viveva a Napoli dal 1947. Dopo un breve soggiorno a Capri, decise di stabilirsi nel capoluogo campano dove prese casa in via Tasso numero 484. Il capoluogo campano fu una scelta strategica, di sicurezza personale unita al più facile controllo su una serie di attività illegali. Lucky viveva con una ballerina 27enne, Igea Lissoni, che sarebbe morta di cancro nel 1958. Quando arrivò a Napoli, Luciano aveva 50 anni, negli Stati Uniti si era conquistato considerazione raggiungendo posizioni di vertice negli equilibri mafiosi. Il soprannome Lucky, fortunato, se l’era conquistato salvando la pelle dopo essere stato torturato e lasciato in una pozza di sangue da una banda rivale. Figlio di emigranti palermitani, intraprese una strada diversa dai fratelli che avevano iniziato invece a lavorare onestamente uno come sarto l’altro come barbiere. Si arricchì e si fece notare nei mesi del proibizionismo, diventando un fedelissimo del boss Joe Masseria. Dopo poco tempo, Lucky ne prese il posto, eliminandolo in un agguato da film al ristorante “Scarpato’s”. Era in sua compagnia, si allontanò con la scusa di dover andare in bagno. Subito dopo, entrarono in azione i killer che, indisturbati, massacrarono Joe Masseria. Era il 15 aprile 1931. Poco dopo, toccò anche al boss Salvatore Maranzano. Al vertice della mafia americana, c’era ormai Luciano con i capi delle altre famiglie: Joe Bonanno, Gaetano Gagliano, Vincent Mangano e Joe Profaci.

Erano loro i componenti della commissione mafiosa suprema tra New York, Chicago e Boston. Ma, rispetto agli altri, Lucky aveva avuto anche la capacità di intrecciare rapporti con politici e sindacalisti. Furono loro, per anni, a coprire le sue attività criminali. 

Lo sbarco in Sicilia 

Ma il giudice Thomas Dewey riuscì a portarlo in galera. Partendo da un’indagine per evasione fiscale, sui redditi dichiarati tra il 1929 e il 1935. Lucky finì nel penitenziario di Clinton, un carcere di massima sicurezza nello stato di New York. E qui, lo contattarono i vertici della Marina militare americana, che chiesero il suo aiuto durante la seconda guerra mondiale. Per tutto il 1942, Lucky ricevette decine di visite in cella. Incontrò anche mafiosi liberi e fu disponibile a fare un primo favore alla Marina militare: individuare da dove partivano le soffiate che segnalavano le navi in partenza dal porto, poi silurate dai tedeschi. Il controllo mafioso sui lavoratori del porto di New York era totale. E Luciano utilizzò proprio quei contatti per passare le informazioni necessarie alla Marina, che intercettò la rete di spie dei tedeschi. Poi, arrivò un’altra richiesta, per preparare il terreno allo sbarco in Sicilia da organizzare nel luglio 1943. Lucky passò ai militari i nomi di centinaia di “amici” siciliani, che avrebbero potuto agevolare lo sbarco americano. Attraverso quelle ulteriori notizie, si conquistò una contropartita importante: la scarcerazione, utilizzando un cavillo giuridico e tante amnesie. Libero, ma espulso dagli Stati Uniti come “indesiderato”. Un’ipocrisia, ma anche una vera fortuna per Lucky che seppe mettere a frutto i suoi preziosi contatti mafiosi. Tornò in Italia, da dove era partito agli inizi del ’900 con i genitori, i fratelli e le sorelle. 

L'arrivo a Napoli 

Prima il passaggio in Sicilia, poi il trasferimento a Napoli in tutta tranquillità. Ovunque, Lucky Luciano fu accolto da amici e cumparielli, con ossequi e disponibilità. Scene ricostruite anche nel famoso film di Francesco Rosi “Lucky Luciano” del 1973, dove il boss era interpretato dall’attore Gian Maria Volonté. La presenza di Luciano, sotto osservazione della Questura napoletana che lo convocava di frequente per chiedergli informazioni e controllarlo, attirò il passaggio in Campania di traffici che favorirono la riorganizzazione di gruppi criminali di una camorra che si era rigenerata dopo la guerra attraverso le attività della borsa nera e del contrabbando. Dal 1949, Luciano fu coinvolto in più indagini su traffici di cocaina e eroina. Era abituato a pensare in grande, ben oltre il contrabbando di sigarette. Realizzò una fabbrica di confetti a Palermo, intestata al fratello e al mafioso siciliano Calogero Vizzini, che faceva da copertura alla vendita dell’eroina. E c’era anche Lucky, nell’ottobre del 1957, negli incontri descritti dagli storici della mafia all’hotel des Palmes, dove erano presenti boss siciliani e americani. Decisero strategie comuni per organizzare il controllo del traffico internazionale di droga sull’asse Sicilia-Stati Uniti. 

 

Una presenza scomoda, rimasta a Napoli per 15 anni, anche se Luciano si spostava di frequente al nord Italia come in Sicilia. Cambiava spesso residenza, si circondava di guardaspalle, cercava di non dare nell’occhio. E morì a 64 anni proprio a Napoli, appena 4 anni dopo la morte della sua Igea. A spiegare la presenza a Capodichino quel giorno, si disse che doveva incontrare un produttore cinematografico interessato a finanziare un film sulla sua vita. Scampato ad agguati e guerre mafiose negli Stati Uniti, Lucky divenne il rispettato boss tornato in Italia, ammirato dagli aspiranti capi della camorra che guidavano poco più di piccoli gruppi di bande che si dividevano i guadagni del contrabbando. Fu sepolto negli Stati Uniti, dopo aver vissuto nella sua terra d’origine da capomafia. Anche questa, 60 anni fa, era la Napoli criminale.

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