CrimiNapoli / 6 La morte senza pietà dell'agente Salvatore D'Addario e il pentito che si suicidò

CrimiNapoli / 6 La morte senza pietà dell'agente Salvatore D'Addario e il pentito che si suicidò
di Gigi Di Fiore
Venerdì 19 Novembre 2021, 12:32 - Ultimo agg. 20 Novembre, 08:12
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Eroe e vittima sacrificale senza volerlo, solo perché il senso del dovere e di giustizia è stato più forte dell’istinto di sopravvivenza e della paura. Non aveva ancora compiuto 31 anni Salvatore D’Addario, assistente del Comparto di Polizia postale di Napoli. Quel sabato 30 marzo di 30 anni fa, vigilia di Pasqua, si trovava a porta Nolana con la moglie e due dei suoi tre figli. In giro per compere, nell’atmosfera di festa. Libero dal servizio e in borghese. All’improvviso sentì sparare e non esitò a estrarre la pistola, nell’istinto di difesa verso i suoi familiari. Non indossava la divisa, ma si qualificò. Gli spararono alle braccia e alla testa, poi lo investirono con un furgoncino finendolo. Venne massacrato senza pietà.

Erano quattro belve, killer del clan camorristico scissionista dei Mariano ai Quartieri spagnoli. Killer che cercavano un uomo del gruppo contrapposto in una guerra che insanguinava il cuore di Napoli. I picuozzo del capoclan Ciro Mariano contro gli scissionisti che volevano mettersi in proprio nelle estorsioni e nello spaccio di droga guidati da Salvatore Cardillo, detto beckenbauer dal nome del celebre libero della nazionale tedesca, e Antonio Ranieri detto polifemo per la sua stazza fisica.

Il giorno prima dell’agguato a porta Nolana, c’era stata una strage proprio nel cuore dei Quartieri spagnoli. In via Nardones, a pochi passi da piazza Trieste e Trento.

Guerra nel centro di Napoli, in uno dei Quartieri-stato della camorra di quegli anni. Era il venerdì santo e i Mariano ordinarono di sparare nella strada dei Quartieri spagnoli dove si vedevano spesso gli uomini vicini agli scissionisti. Bersaglio principale doveva essere Franco Liccardo, detto Franchetiello’o municipio, uno degli ispiratori della frattura dal gruppo dominante della famiglia Mariano. Ci furono tre morti, ma Liccardo riuscì a scamparla.

Non c’era tempo per una pausa, la guerra doveva andare avanti a ritmo forsennato e seguiva uno scontro precedente che aveva contrapposto i Mariano ai Di Biase detti i faiano. A un’azione violenta doveva seguire subito una risposta più dura. Teatri di agguati e sangue furono i vicoli dei Quartieri, ma anche le strade vicine: dai locali di piazza Municipio alle Case Nuove fino a porta Nolana. La reazione alla “strage del venerdì santo” fu organizzata in appena 24 ore. I quattro killer degli scissionisti si mossero in un camioncino alla ricerca di uno degli affiliati dei Mariano che si muoveva tra le Case Nuove e porta Nolana. Erano Pasquale Frajese detto Linuccio ’e Secondigliano per le sue origini di quartiere, Giovanni Labonia che era incredibilmente in permesso premio dal carcere, Raffaele Jacovelli e Pasquale Mazzocchi.

Erano killer, abituati a “picchiate eccellenti” come dicevano in gergo per definire agguati pericolosi e violenti. Quel 30 marzo, i loro piani furono stravolti dall’imprevisto: la presenza dell’agente D’Addario. Nonostante urlasse di essere un poliziotto, i killer non si fermarono. Forse lo credevano uno dei Mariano, o forse lo colpirono solo per riuscire a fuggire indisturbati. Senza pietà gli spararono e poi lo investirono con il furgoncino con cui si erano spostati, ma l'improvvisa reazione della loro vittima, che portò al ferimento di due dei quattro killer, fece scattare l’allarme.

Dalla Questura partirono via radio i falchi in moto e delle volanti. L’inseguimento fu drammatico, in spazi piccoli e tra la gente. Alla fine, gli agenti riuscirono a raggiungere e arrestare i quattro killer, pieni di esasperazione e rabbia per aver visto un collega ridotto in condizioni tremende. D’Addario fu ricoverato all’ospedale Loreto mare e poi trasferito all’ospedale Cardarelli. Non ce la fece. Il quattro aprile morì. Troppo gravi le ferite. Lasciò la moglie e tre figli che avrebbero poi scelto di entrare in polizia come il giovane padre perso. Dopo la morte, all’agente D’Addario fu riconosciuta la medaglia d’oro alla memoria. Significativa la motivazione, che sintetizzò bene i momenti frenetici e violenti di quel 30 marzo 1991: “Libero dal servizio, richiamato da colpi d’arma da fuoco, interveniva in un conflitto armato tra bande camorristiche rivali. Benché gravemente ferito, reagiva con la pistola d’ordinanza riuscendo a colpire due dei malviventi in fuga. Consentiva così la loro successiva identificazione e cattura. Mirabile esempio di altissimo senso del dovere e di non comune ardimento, spinti fino all’estremo sacrificio”. Il nome di Salvatore D’Addario si aggiunse al lungo elenco di vittime della camorra. Morto, fuori dal servizio, spinto da un irrefrenabile senso del dovere di fronte alle scene di un agguato tra clan.

 

Ma il sacrificio dell’agente D’Addario, anche se doloroso, non fu inutile. Ebbe decisivi effetti sulla guerra di camorra nei Quartieri spagnoli. Uno di quei quattro killer, Pasquale Frajese, decise di collaborare con la giustizia. Divenne uno dei primi pentiti della camorra napoletana, a poche settimane dall’avvio della legge che prevedeva i contratti di collaborazione gestiti dal Servizio nazionale di sorveglianza del ministero dell’Interno. Figlio di un bidello di scuola, classe 1960 proprio come l’agente di polizia ucciso, Frajese era un cocainomane dichiarato che si era perso in una vita senza speranze. Intraprese la strada del crimine in un quartiere diverso dal suo. Quando gli agenti lo raggiunsero dopo l’inseguimento a porta Nolana, non si trattenero e lo riempirono di botte per la rabbia esasperata dalla ferocia con cui era stato colpito il collega. Frajese si pentì subito, lasciandosi andare a un fiume di rivelazioni, confessando 15 omicidi in 5 anni e descrivendo gli affari illeciti che si spartivano i clan dei Quartieri, dalle estorsioni, alla droga, al lottonero. In ogni settore, c’era uno specialista delegato. Le armi, le moto, le auto, le donne, spesso a pagamento, erano gli unici interessi di quei “picchiatori”, come si auto definivano i killer. “La malavita è una cosa seria, ma ormai affidata a gente sbagliata” arrivò a dichiarare Frajese. Nessuna altra speranza che il guscio del clan, in notti di solitudine a preparare agguati, a nascondersi, sniffare, parlare di donne e armi. E poi i soldi guadagnati con il sangue: due milioni di lire ogni 15 giorni in aggiunta alla paga settimanale, ma anche sei milioni al mese per cambiare aria dopo ogni omicidio, necessari a cambiare aria. Vita da killer, come quella di Giovanni Labonia che uccideva per il clan quando era in permesso premio per poche ore fuori dal carcere.

Le rivelazioni di Frajese aprirono uno squarcio decisivo nell’omertà dei clan contrapposti nei Quartieri spagnoli. Fu un contributo fondamentale alle indagini, che portarono a decine di arresti e alle condanne all’ergastolo anche dei capiclan. Tutto era nato dal sacrificio coraggioso dell’agente D’Addario. Molti anni dopo, in preda ai suoi vuoti e assalito dai fantasmi del passato, Pasquale Frajese si uccise. Era il 27 aprile del 2006. Lo trovarono appeso a una corda nella casa alla periferia di Firenze, sua residenza protetta. Si era impiccato.

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