Sangue del nostro sangue, i giorni di via Chiatamone dal terremoto a Siani

Un luogo fisico, ma anche simbolico

Il palazzo di via Chiatamone
Il palazzo di via Chiatamone
Domenica 12 Maggio 2024, 09:51
6 Minuti di Lettura

«Pe' tant'anne t'aggio rattato
allisciato, accarezzato
e abbuzzato
Te presentave stuorto,
e cu' pacienza
te facevo jì deritto...»
(Salvatore Di Meglio
O chiummo ca se ne va)


* * *

Quando Il Mattino prese il largo, nel 1892, molti quartieri della città erano un tappeto di stracci. A Napoli e provincia, l'analfabetismo raggiungeva la percentuale record del 75 per cento. Erano gli anni della Serao, l'avventurosa, audace ed amatissima fondatrice del Il Mattino. Divorata dal demone del giornalismo, donna Matilde narrò nei Mosconi, con il soprannome Gibus, i vizi e le virtù della Bella Époque ma soprattutto descrisse, meglio di chiunque altro, quel "ventre" di Napoli che il piccone del Risanamento, dopo la strage di colera del 1884, aveva lasciato straripante di poveri e disperati: «Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli?». Non sarebbe bastato, lei lo capì prima di altri e andò allo scontro con il primo ministro Depretis (e poi anche con Mussolini). Alla Serao è dedicata una lapide nella piazzetta che oggi porta il suo nome. In vico Rotto San Carlo, la cassaforte della nostra memoria.
All'Angiporto, ogni sera, si ritrovavano nella sede del nuovo giornale Ferdinando Russo, autore di versi di successo e responsabile della cronaca cittadina, Gabriele D'Annunzio, già incamminato sulla strada della letteratura e della poesia, Francesco Saverio Nitti, giovane docente di economia politica, Federigo Verdinois, il critico teatrale, che traduceva dal polacco e dal russo i romanzi famosi. Divennero tutti grandi firme del Mattino, assieme a Giosuè Carducci e Roberto Bracco. Nitti, all'indomani del primo numero, piantò una grana perché il suo nome non figurava tra i collaboratori. Era stata una dimenticanza. «Ti prego di annunziare che non faccio più parte del Mattino», scrisse a Scarfoglio. Don Edoardo lo ammansì: «Lo sai che scambio la porta con la finestra. Non far lo sciocco e torna all'ovile. Il Mattino è estremamente brutto e bisogna farlo diventar bello».

Quando si cominciò a parlare di una nuova sede - via Chiatamone - il direttore Ansaldo borbottò e tentò di sconsigliare il passaggio.

Sarebbe rimasto volentieri all'Angiporto Galleria, dove Eduardo Scarfoglio - di cui si sentiva orgoglioso continuatore - aveva iniziato l'avventura giornalistica. Ma Egidio Stagno, amministratore del giornale, fu risoluto. Voleva macchinari moderni, sale più accoglienti, uffici amministrativi, ambienti tipografici adatti alla modernità del giornale. Così, il 4 maggio del 1962, la redazione del quotidiano prese ufficialmente possesso della sua nuova casa.

* * *
Questa antica e nobilissima strada, un tempo, era piena di grotte. Grotte scavate per estrarre il tufo, che i greci chiamarono platamonie, o platamoniche (da Platamon, col significato letterale di "rupe scavata da grotte") e grotte dedicate in passate al culto di Serapide e Mithra, antri misteriosi e spettrali che furono a lungo teatro di riti orgiastici e sabba propiziatori. Fu il viceré don Pedro de Toledo, nel sedicesimo secolo, a deliberare, con un ordine che nessuno osò discutere, che quelle spettacolari caverne ai piedi del monte Echia venissero distrutte. Stop, basta scandali. Molte di quelle cavità furono murate. Altre ne furono aperte in seguito, come il cunicolo voluto da Ferdinando II di Borbone sotto il monte Echia per spostare velocemente i soldati dalla caserma di via della Pace (l'attuale via Morelli) a Palazzo Reale.

* * *
A scrivere del trasferimento che guardava al futuro - come racconta Gigi Di Fiore in «Via Chiatamone 65» (editore Langella) - fu un navigato cronista, Alberto Barone: «Il Mattino ha lasciato il vetusto ambiente che non ha conosciuto luminosità di cristalli e cromature di metalli, ma solo l'atmosfera eccitante del piombo, pareti ingiallite, tavoli sgangherati e pavimenti malamente rappezzati». Il giornale in quel periodo era in forte crescita; con la direzione di Ansaldo erano state ideate numerose iniziative speciali, soprattutto all'insegna della solidarietà, come la famosa raccolta di offerte per aiutare i poveri e gli emarginati (Bontà di Napoli, ad occuparsene era Aldo Bovio, figlio del grande Libero). Gino Palumbo aveva rivoluzionato l'informazione sportiva: più pagine dedicate allo sport (con l'invenzione delle interviste dagli spogliatoi) e due settimanali, «Sport Sud» e «Sport del Mezzogiorno».

Via Chiatamone 65 divenne la casa di tutti i napoletani. Un luogo fisico ma anche simbolico. La città vi si è identificata, riconosciuta, specchiata. Se c'era da far festa, come ai tempi del primo scudetto del 1987, Napoli veniva a far festa a via Chiatamone. Se c'era da celebrare un lutto, da stringersi in un dolore, il luogo del lutto e del dolore era «Il Mattino». È stato così nel giorni del colera, nel 1973, e in quelli del terremoto del 1980. In una stanza al secondo piano di via Chiatamone, all'indomani del sisma del novembre 1980, fu deciso quel titolo, «FATE PRESTO», che ancora oggi incornicia una meravigliosa stagione di giornalismo e di passione civile.

* * *

Chi decise, la sera del 25 novembre 1980, due giorni dopo il sisma, il titolo di prima pagina? Chi ebbe per primo l'idea di riassumere in quella invocazione l'urlo di rabbia e dolore che saliva dai territori sventrati dal sisma? «All'ultima riunione del tardo pomeriggio - ricorda Pietro Gargano, memoria storica del giornale e della città - il direttore Roberto Ciuni ascoltò i resoconti e chiese: "Avete suggerimenti per il titolo della prima?". "Bisogna fare presto - dissi io - altrimenti là sotto non troveranno vivo nessuno e scoppieranno epidemie". Il direttore sollevò il taccuino e lo mostrò, c'era scritto "Fate presto". Rimasi senza parole. Nessuno osò replicare, Ciuni aveva già deciso". Completammo insieme il titolo, decidendo il catenaccio: per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla».

* * *
Sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi. Da Chiatamone usciva Giancarlo Siani la sera in cui venne ucciso, il 23 settembre dell'85: gli dedicammo la grande sala del secondo piano, la più prestigiosa. E poi le battaglie, tantissime, con il giornale sempre schierato in difesa di un territorio duro, difficile, scorticato: per raccontarne le ferite e gli sfinimenti, ma anche per celebrarne le eccellenze e i primati. Tutto da queste stanze, intrise di storia e di storie, in un trambusto di adrenalina e notizie. Quando la lavorazione in piombo fu sostituita dalla composizione a freddo Sasà Di Meglio compose una poesia, O chiummo ca se ne va, i cui versi vennero incisi su una lastra inchiodata all'ultima linotype. La redazione al terzo piano, al primo l'antro magico dei fotografi della Fotosud, Giacomo «Peppino» Di Laurenzio, Guglielmo Esposito, Antonio Troncone e Mario Siano, più reporter dei migliori reporter della città.
Il mondo è cambiato, i giornali sono cambiati, oggi molti dei "ragazzi di via Chiatamone" non ci sono più. I maestri ci sorridono dalle foto in bianche e nero. Ma hanno lasciato tracce ovunque, luminose scie. Nel 2018, è storia di ieri, il trasferimento della redazione nella nuova sede del Centro Direzionale, nel grattacielo «Francesco», progettato dagli architetti Gaetano Caltagirone e Lorenzo Monardo. Un luogo della modernità, un altro luogo-simbolo della città che guarda al futuro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA