La vigilanza privata dei Casalesi
a Cinecittà: «Noi con quelli di 007»

La vigilanza privata dei Casalesi a Cinecittà: «Noi con quelli di 007»
di Mary Liguori
Mercoledì 10 Luglio 2019, 07:00 - Ultimo agg. 11:08
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Il pizzo anche ai cinesi. E guai a ribellarsi: «Poi che fai se i magazzini fumano?». È una delle minacce, una delle tante, con le quali il gruppo Bidognetti capeggiato da Enrico Verso, cognato di Raffaele Bidognetti figlio di Cicciotto ‘e mezzanotte, piegava i commercianti dell’Agro aversano e non solo loro. Ma c’è anche il pizzo con «la fattura» agli atti delle 266 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare a firma del gip Emilia Di Palma. Lì dove il racket viene imposto sotto forma di protezione «ufficiale» attraverso l’obbligo di ingaggiare gli istituti di vigilanza privata. Quelli dei Casalesi. La rete è ampia e arriva fino alla Capitale dove sono riusciti, i Casalesi, a piantare la sede legale di uno degli istituti di vigilanza privata sequestrati ieri dai carabinieri di Aversa, diretti dal tenente colonnello Donato D’Amato. Una rete, dicevamo, vasta e occulta. Le quote del clan si celano dietro i nomi di insospettabili incensurati. Signori nessuno, anche se uno di loro porta nientemeno che il nome di Carlo Verdone, omonimo del grande attore romano. È lui che trama a Roma, che va a sostenere l’esame in Prefettura coi soldi di Verso quando, nell’agosto del 2016, fondano la nuova società, questa volta con guardie armate. E ci sono tutti gli ingredienti della piovra. Con tentacoli in Prefettura a Napoli «Ho chiamato Giorgio», le intercettazioni, e contratti da decine di migliaia di euro al mese con gente che ha lavorato addirittura al colossal Ben Hur e ai film di 007. «Gli ho fatto firmare un bimestrale da 53mila euro... qua diventiamo milionari». 

Le considerazioni degli indagati sono direttamente proporzionali al giro che hanno per le mani. Un giro con la faccia pulita dei prestanome e le mani sporche della camorra. I cui soldi fanno girare, fin dal 2009, fiumi di danaro. Con tanto di conti all’estero, come Malta. Per la Dda di Napoli non ci sono dubbi. L’istituto di vigilantes «Roma Security Srl» è dei Casalesi, così come lo sono la «N.S.P. Secusity Sas» di Giugliano e la «Services & Security Srl», con sede a Villaricca. Paraventi del clan dunque. È il pizzo legalizzato. Sicurezza, promettono i camorristi, in cambio della quota per i carcerati. Sicurezza, aggiungono, ma con le «nostre ditte di vigilanza privata» così le estorsioni le si paga con tanto di fattura. Da ieri l’incubo è finito perché il presunto reggente del clan Bidognetti è finito in cella. Si tratta di Enrico Verso, fratello della moglie di Raffaele Bidognetti, noto con il poco edificante soprannome di «puffo» per la sua bassa statura, figlio del boss Cicciotto ‘e mezzanotte, uno dei capi storico dei Casalesi, da anni al 41 bis. La misura in carcere ha raggiunto anche Salvatore Fioravante, già detenuto. Il gip di Napoli, Emilia Di Palma, ha disposto invece i domiciliari per Antonio D’Abbronzo, di Villaricca, ed Eugenio Di Laura, di Gricignano, residente a Sant’Antimo. Divieto di dimora in Campania, infine, per il già citato Carlo Verdone, di Roma, e per Vincenzo Siano, di Sant’Antimo. L’inchiesta è stata coordinata dal pm Dda Alessandro D’Alessio. 

Sono loro a dover comandare, i «soci», ma uno non ha la chiavi della «sua» azienda, l’altro si fa pagare le tasse d’esame dai Casalesi. Eccoli i prestanome del clan, nell’autoritratto che uno loro dipinge quando i carabinieri lo chiamano in causa per stabilire di chi sono gli istituti di vigilanza. E poi ci sono i dialoghi. Verdone che chiede i soldi per l’esame a Verso ché «senza l’esame non ci danno la licenza»: è l’agosto del 2016 e, dopo anni di vigilanza, i Casalesi sbarcano nel mondo delle guardie giurate particolari. I soldi, dunque, li mette Verso. E ne vale la pena. Perché di Verdone, quello famoso, il prestanome non ha solo le generalità, ma anche i contatti a Cinecittà. «53mila euro in due mesi, qua si diventa milionari.... lo diventiamo insieme», si dicono Carlo Verdone a Enrico Verso. «Ho chiuso quel lavoro ieri... 53.000 euro... un acconto in due mesi», «Ce ne dobbiamo andare là, a Roma, ho chiuso e devo fare pure un coso cinematografico... quello che fece il film 007, quello di Ben Hur...». E poi si parla di contratti a piazza del Popolo a Roma, ma anche di aziende nelle aree Asi di mezza Campania. E di vigilanza in occasione dei grandi concerti. Come quello di Gigi Finizio (ovviamente estraneo ai fatti), a Parete, nel 2016. D’altro canto, Verso è vecchio del mestiere. Già nel 2009 i pentiti lo collocano nell’ambiente della vigilanza privata quando «gestiva la Superpol e per assumere le guardie si faceva dare 5mila euro a testa», dice il collaboratore di giustizia Giovanni Mola. E lo stesso vale per Verdone, titolare di una società nello stesso settore che però ha avuto guai giudiziari che i Casalesi si impegnano a far «sparire», non si sa in che modo, per ridare verginità all’imprenditore. Quella verginità che lui stesso anela quando, intercettato, dice: «Senti Enrico, io posso fare società con chi vuoi... ma con i camorristi no, andavano bene i Buglione... non ti offendere...», il cognato di Bidognetti lo tranquillizza: «Ma certo, gente tranquilla, professionisti come te». 

Il titolare di un’azienda agricola, un imprenditore cinese, tutti devono pagare la quota. Fino a 200 euro a settimana. E chi non ha soldi fa di tutto per mettere insieme la «rata» ché, a quanto pare, Verso e Fioravante «fanno paura». Ne è la prova una delle tante conversazioni intercettate in cui una vittima, in forti difficoltà economiche per fronteggiare le cure sanitarie per il papà malato, fa di tutto per pagare il pizzo. Lo stesso fanno coloro cui viene imposta la vigilanza privata con le ditte del clan. Tacciono e firmano i contratti. L’unico che ammetterà di aver pagato per quieto vivere è paradossalmente il cinese. È in Campania da troppi anni, diciannove, tanto che si fa chiamare «Luigi», per non sapere come funziona da queste parti: il pizzo è «obbligatorio». «Prima ero a Palma Campania, non pagai e mi derubarono. Quando mi hanno avvicinato per i soldi a Teverola ho subito pagato: non volevo correre rischi». Lo dice ai carabinieri quando lo convocano in caserma. E le sue parole, purtroppo, dipingono un quadro desolante.  
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