Le mode linguistiche passano,
l’italiano resta

Le mode linguistiche passano, l’italiano resta
di Luca Ricci
Sabato 8 Ottobre 2016, 09:08 - Ultimo agg. 12:07
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Luca Ricci (Twitter: @LuRicci74)

“Un italiano vero” (Rizzoli, pag. 262, 18,00 €) è una ricognizione nient’affatto boriosa o accademica sulle forme della nostra lingua, sia parlata che scritta, e soprattutto sulla circostanza (capitale) che il nostro tempo digitale sia una rivoluzione anche lessicale e grammaticale. Ad accompagnarci in questa ricognizione è Giuseppe Antonelli, italianista e conduttore del programma dedicato alle parole “La lingua Batte” su Radio3, il quale è molto poco schizzinoso (come dovrebbe essere ogni studioso serio) rispetto alle imprevedibili evoluzioni che può prendere una lingua nel corso della propria storia. Il sottotitolo del libro - “La lingua in cui viviamo”- renda bene l’idea di una lingua che non è composta da una lista di leggi intoccabili, ma appunto viene vissuta, cambia nel tempo.

Come sta cambiando la nostra? «L’italiano sta cambiando con noi. È sempre stato così, d’altronde. Perché la lingua è lo strumento sociale per eccellenza e si trasforma insieme al nostro modo di vivere e di comunicare. I cambiamenti più rapidi sono quelli che riguardano il lessico, le parole che usiamo. Da questo punto di vista l’italiano di oggi è sempre più “glocale”: aumentano le parole inglesi portate dalla globalizzazione, ma anche quelle che provengono dai dialetti. E la componente più forte è di sicuro la seconda: nei nostri vocabolari gli anglicismi non vanno oltre il 2%, mentre un terzo degli italiani dice di parlare “sia italiano sia dialetto” quando si trova in famiglia o tra amici.»

E la grammatica invece? «Anche la grammatica cambia, sebbene con tempi molto più lunghi. Per questo non ha senso assumere atteggiamenti da purista o da nostalgico (come quelli di chi rimpiange ancora “quando c’era egli”). Ma conoscere, studiare, usare meglio la nostra lingua resta una forma tutt’altro che banale di rispetto per l’ambiente. Perché nella nostra lingua viviamo tutti i giorni. La nostra lingua ci nutre, educa i nostri pensieri e i nostri sentimenti, plasma la nostra visione del mondo. La lingua siamo noi.»

La rivoluzione epocale dall’italiano all’e-taliano è che la nostra lingua improvvisamente si ritrova non solo a essere parlata, ma anche scritta dalla maggioranza degli italiani. In che modo e quali sono le conseguenze? «La conseguenza principale è che si sta sviluppando un nuovo tipo di lingua scritta. Una scrittura non solo informale, ma frammentaria. Le conversazioni in rete (chat, d’altronde, significa chiacchierata) hanno in comune con la lingua parlata proprio questo aspetto. Il vero testo si costruisce insieme: attraverso i turni di parola, ognuno mette un mattoncino per costruire un discorso di senso compiuto. Questo perché, grazie alla simultaneità della comunicazione, c’è ormai una compresenza virtuale. Anche dove manca il completamento dialogico, poi, interviene quello multimediale.»

Il rischio non è quello di una svalutazione della lingua? «In quasi tutti i social network la parte verbale è ormai al servizio di altro: foto, video, musica. La prima conseguenza è che ci stiamo disabituando a scrivere testi completi, che abbiano un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Negli anni scorsi s’è fatto un gran parlare di “ipertesti”, ma quelli che ininterrottamente produciamo ogni giorno sono “ipotesti”.»

Ricordo con tenerezza le polemiche che scatenò l’account di un importante editore quando per far rientrare nei 140 caratteri di un tweet una citazione letteraria vennero usate le K invece del CH… «Le abbreviazioni sono un uso antico e non certo una novità del linguaggio telematico. Quelle k e quelle x, poi, erano già usate nei linguaggi giovanili almeno dagli anni Settanta del secolo scorso (penso a scritte come “scuola okkupata x autogestione”). Oggi quella moda è passata. Le abbreviazioni sono considerate dai ragazzi un uso “da sfigati”, una cosa da “bimbiminkia”.»

Tra cyberpionieri della nuova lingua e goffi tentativi di innovazione resterà qualcosa? «La nuova moda è quella delle faccine, o meglio dei disegnini.
Le emoticon, infatti, erano nate per accompagnare le parole con una sorta di punteggiatura mimica. Gli emoji, invece, si usano al posto delle parole, a volte di un’intera frase. Ma presto anche questi usi appariranno vecchi e saranno via via abbandonati. Il bello, alla fine, è proprio questo: le mode passano, l’italiano resta.»
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