Antonio Funiciello racconta Giacomo Matteotti, l’uomo dietro il martire: quelle idee così attuali

Dall’infanzia in una famiglia benestante alle accese riunioni di partito, dalle lotte intestine alla sinistra alla richiesta di unità

Un murales dedicato a Giacomo Matteotti
Un murales dedicato a Giacomo Matteotti
di Ugo Cundari
Lunedì 29 Aprile 2024, 07:00 - Ultimo agg. 30 Aprile, 11:58
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I nemici chiamavano Matteotti «figlio di strozzino» perché suo padre aveva prestato soldi a credito a tassi non proprio generosi. Gli avversari politici gli davano del «traditore di classe» perché era benestante e pretendeva di difendere gli interessi dei poveri. I fascisti più fanatici lo offendevano dandogli del «volgare mistificatore e spregevolissimo ruffiano». Gli amici, i compagni socialisti, i braccianti del Polesine che lo conoscevano bene, lo chiamavano Tempesta, un soprannome dovuto alla furia con la quale si impegnava per il partito e per il popolo, un soprannome che è il titolo del saggio biografico, con il sottotitolo emblematico «La vita (e non la morte) di Giacomo Matteotti», dedicato alla vittima politica più illustre dei fascisti, pubblicato da Rizzoli (pagine 202, euro 17,50), scritto da Antonio Funiciello, 48 anni, originario di Piedimonte Matese, ex capo di gabinetto del governo Draghi e oggi Identity manager all’Eni, che non esce a caso quest’anno, visto che il 10 giugno saranno cent’anni dall’omicidio.

Con stile piano e sorvegliato, ricorrendo a testimonianze, aneddoti, documenti e fonti parlamentari, Funiciello racconta l’uomo e il politico, l’amante del cinema e del teatro, il buon padre di famiglia e marito amorevole, il riformista antifascista e anticomunista, anche se quest’ultimo termine non lui non lo usò mai. 

Funiciello dà conto delle lotte socialiste, della denuncia delle pessime condizioni delle carceri, per le quali Tempesta combatteva per una riforma, e di episodi poco noti, come la prima volta in cui Matteotti subì la violenza dei fascisti.

Fu nel 1921, tre anni prima di morire. Fu sequestrato, malmenato e forse anche violentato.

L’intento principale di Funiciello è togliere la patina del santino e del martire di cui Matteotti è rimasto prigioniero dal giorno dell’assassinio. «È un padre della Repubblica, ma in Italia non c’è stata alcuna ansia di raccontare veramente che razza di politico e uomo sia stato. Dopo la sua morte è diventato un mito ambiguo e posticcio».

C’è bisogno di rileggere con equilibrio e lucidità la sua avventura politica e umana, come fa Funiciello, mettendo in evidenza anche l’attualità della sua visione politica. Matteotti era un convinto riformista che lavorava per trovare un accordo con tutte le forze della sinistra, anche con i comunisti, dai quali era attaccato e apostrofato con epiteti non proprio amichevoli. Gobetti lo chiamava «straniero in casa propria, socialista malvoluto dai suoi compagni, “persecutore” degli stessi e, infine, “il volontario della morte”». 

Matteotti sapeva che suo dovere era non chiudere mai il dialogo, allearsi contro pericoli più grandi. Funiciello insiste sulle più grandi doti di Matteotti, la capacità di essere un leader scaltro e pragmatico dalla grande dirittura morale. «Era un politico nuovo, come alcuni suoi contemporanei inglesi e tedeschi, un politico di professione, un politico per scelta. Avrebbe potuto vivere di rendita, ma aveva scelto di stare accanto agli ultimi, perché non aveva saputo pensare diversamente la sua esistenza». Non solo la sua morte violenta, a soli 39 anni, ma anche la sua lezione merita di essere ricordata con consapevolezza

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