Antonio Funiciello, Leader per forza: quegli orologi fermi nei palazzi del potere

Nel racconto spicca la figura di Draghi e la sua capacità di avere un campo visivo più sviluppato degli altri

Antonio Funiciello
Antonio Funiciello
di Generoso Picone
Martedì 11 Aprile 2023, 07:00 - Ultimo agg. 18:34
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C'è un'immagine con cui Antonio Funiciello apre Leader per forza (Rizzoli, pagine 299, euro 18) che già da sola, per densità di significati, potrebbe costituire una delle «Storie di leadership che attraversano i deserti». Fissa la giornata del febbraio 2021 quando Mario Draghi, appena nominato presidente del Consiglio, è a Palazzo Chigi già completamente immerso nella complicata gestione della lunga emergenza pandemica. Nonostante i problemi e le urgenze, il capo del governo richiama l'attenzione di Funiciello, coordinatore del suo staff, su un particolare: le stanze del Palazzo sono piene di preziosi settecenteschi orologi tutti inesorabilmente non funzionanti. Rotti, bloccati su un tempo spaiato e sospeso nell'indefinito, quasi a comporre una metafora del Potere uscita dal racconto di Carlo Levi o magari dall'immaginazione visionaria di Lewis Carroll. Draghi fa notare i guasti al suo collaboratore, che pure in quei luoghi aveva operato per 18 mesi durante la presidenza di Paolo Gentiloni, e con un certo ironico disappunto indica: «Ripariamoli».

Antonio Funiciello colloca l'episodio degli orologi fermi nel Palazzo del Potere in un punto nodale del suo saggio.

Dove il protagonista non è Draghi, anche se all'esperienza vissuta al suo fianco fa importanti e interessanti riferimenti e ne viene la conferma del ruolo svolto nella prima fase della guerra in Ucraina, ma semmai una postura che in Mario Draghi appare evidenziata in modo tanto netto da diventare un elemento assai utile per la riflessione avviata. La capacità di avere un campo visivo più sviluppato degli altri, la predominanza dei rapporti tra spazio e tempo, la relazione che necessariamente con il tempo instaura un leader, la consapevolezza di essere una figura transitoria e comunque di guida nel corso della Storia, tutto ciò concorre a delineare la tesi di fondo: «Ciò che dà valore a una leadership è la sua eredità. Quanto trasmette è la misura di come ha cambiato la realtà sulla quale ha esercitato la propria influenza».

Allora, gli otto casi di scuola che Funiciello mette in fila, in un excursus di riuscita saggistica narrativa, da Mosé a Golda Meir, da Harry Truman a Camillo Benso conte di Cavour, da Abramo Lincoln a Nelson Mandela, da Vaclav Havel ad Angela Merkel, conducono da un lato a cogliere gli aspetti caratterizzanti delle varie vicende e dall'altro costruiscono una trama che trova nell'individuazione dell'incompiutezza attribuita alla «leadership irrisolta» di Merkel - il simbolo di una crisi nell'azione dei governi occidentali. L'autore ne sottolinea la portata nell'assenza di un progetto proiettato al futuro, nella curvatura costante ai richiami dell'emergenza che consuma l'energia della visione: con la conseguenza, sulla scorta dell'insegnamento di James MacGregor Burns, di produrre leader trasformisti che preferiscono girare su se stessi e non trasformatori: che sappiano condurre la propria comunità dal punto A al punto B, da un mondo vecchio a uno nuovo.

In Leader per forza si muove su un terreno dove la pratica diretta al fianco di presidenti del Consiglio si salda con lo studio dei dispositivi del Potere, a cui nel 2019 ha dedicato Il metodo Machiavelli. Come servire il potere e salvarsi l'anima. Oggi, da responsabile della gestione dell'identità di Eni, può osservare lo scenario dell'agire politico acquisendo un quadro più largo del salire e scendere machiavellico, e quindi sostenere non senza amara preoccupazione che «viviamo il tempo di una lunga risacca» e «la sfida che rischiamo di perdere è quella dell'arretramento globale della democrazia liberale». Questo perché viene progressivamente a mancare una leadership accreditata in grado di governare i processi, a partire proprio dal riparare gli orologi rotti nel Palazzo del Potere. Funiciello ricorda che la filosofa americana Joanne Bridgett Ciulla ha contato 221 definizioni di leadership, formulate soltanto tra gli anni Venti e Novanta del secolo scorso. Lui recupera tra gli esempi del passato quello che con maggiore epica efficacia ha svolto il suo ruolo: Mosè. Nel profilo leggendario di colui che suggellò il patto con il suo popolo, il Mosè che Jan Assmann racconta ora in Esodo appare il transforming leader il quale in un'epoca di passaggio si mette alla guida e risponde alla domanda di «qualcosa di diverso»: comunica le scelte, è inclusivo, delega, si confronta, esercita e declina il fattore umano, si assume la responsabilità della decisione. 

A ben vedere, i talenti politici esposti da Truman, Meir, Mandela, Cavour, Lincoln, Havel e anche da Mario Draghi e Sergio Mattarella provengono da questo ceppo. «Una leadership forte è quella di chi attraversa un deserto trasformativo, guidando i propri seguaci verso una meta condivisa»: mettendosi in discussione, traendo insegnamento da errori e sconfitte, andando controcorrente. Ponendosi l'imperativo consegnato da Salvatore Natoli in Il fine della politica: «Ogni potere si giustifica se apporta salvezza». 

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