L'Ottocento napoletano alla (ri)conquista di Roma

Il presidente Mattarella alle Scuderie del Quirinale

La mostra
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Maria Pirrodi Maria Pirro
Mercoledì 27 Marzo 2024, 08:58
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È un viaggio nell'Ottocento, a Napoli lungo più di un secolo: riscattato dall'oblio e non più orientato dal declino politico. Un viaggio alla (ri)conquista di Roma. «Se la città perde la battaglia dell'Unità d'Italia, vince quella artistica sulle capitali che si succedono nel regno», dice orgoglioso Sylvain Bellenger, curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale aperta ieri con la visita privata del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, assieme al sindaco Gaetano Manfredi.

All'inaugurazione l'ex direttore del museo di Capodimonte presenta il percorso guidato che ha uno sguardo originale sulla storia, non confinato alle già famose, e pure straordinarie, vedute della città, ma attraversa sensibilità e movimenti diversi, il sublime e la materia, in un periodo più ampio, dilatato tra la metà del Settecento e la prima guerra mondiale, senza rinunciare a rimandi più contemporanei. «È un'esposizione ideata alla fine della pandemia» rivela Mario De Simoni, direttore generale delle Scuderie del Quirinale. «Ho iniziato a immaginarla recuperando le tele nei depositi della reggia borbonica» aggiunge Bellenger, parlando del suo «ultimo omaggio a Napoli» cosmopolita, che contiene tutta la sua esperienza, di vita e professionale: quella del ragazzo francese affascinato da Edgar Degas al museo d'Orsay, fino alla scelta più recente di dedicare una personale a Salvatore Emblema nel cellaio del bosco.

L'artista di Terzigno, accanto ad Alberto Burri e Lucio Fontana, chiude la selezione di 250 opere suddivise in dieci sale.

In «Napoli Ottocento» la narrazione parte con il Grand Tour e gli artisti che vengono agli scavi di Pompei, la città perduta e riscoperta nel 1748. E, a Napoli, si ritrovano davanti la luce del Mediterraneo, l'urbanistica, il folclore e il Vesuvio che domina su tutto: non a caso, una videoinstallazione ne riproduce la grandezza e persino i rumori, in un'esplosione di fuochi di artificio. E i pittori stranieri finiscono per caratterizzare la scuola partenopea, e qui sono messi a confronto con quelli cittadini. In esposizione c'è un dipinto di Jakob Philipp Hackert, che appartenne a Goethe e accompagnò lo sviluppo di scienze nuove come la vulcanologia con lo studio di particolari pietre laviche raccolte nel primo museo in Italia dedicato alla mineralogia, naturalmente nel capoluogo campano. E un altro dipinto, di Thomas Jones, «Un muro a Napoli» (in prestito dalla National Gallery di Londra), è un capolavoro, per le piccole dimensioni, la resa, ed è unico nel suo genere: si sofferma esclusivamente un dettaglio, il muro di tufo appunto, dall'intonaco scrostato, con i panni stesi ad asciugare sul balcone, il solo segno di presenza umana.

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Si arriva così alla Scuola di Posillipo, quando il paesaggio assume un ruolo sempre più importante, e «porta a una rivoluzione nel campo pittorico, tutta partenopea, capeggiata dall'olandese Anton Sminck van Pitloo, proseguita da Giacinto Gigante con molti altri artisti» spiega Bellenger a proposito della popolarità del «en plein air» che propone un'osservazione sofisticata e attenta della natura, ripresa dal vero, anziché nel chiuso dell'atelier. «È la luce che conduce a vedere diversamente e a dare una consistenza materica alle cose». Proprio con Pitloo e Gigante si comincia a parlare di «macchia» e di sintesi, con i tipici grovigli di pennarello che rappresentano il fogliame degli alberi. Proseguendo il percorso, sono sistemate l'una accanto all'altra due vedute di Gioacchino Toma realizzate nello stesso luogo, di mattina e di sera, ma a distanza di quattro anni l'una dall'altra. Poi c'è l'imponente arca di Filippo Palizzi, da dove gli animali non fuggono dalle acque, ma evidentemente da un'eruzione del Vesuvio. Buoi in primo piano, ma anche pesci, tutti citati in «Lo guarracino» che fa da colonna sonora alla videoistallazione di Stefano Gargiulo che porta il visitatore nella stazione zoologica voluta da Anton Dohrn, centro pioniere per l'oceanografia. Una sala, dedicata all'artigianato di pregio, esalta le ceramiche della fonderia napoletana. Non mancano Domenico Morelli , William Turner, Giuseppe de Nittis.

Una «mostra nella mostra» è dedicata a Edgar Degas con i suoi intensi ritratti radunati grazie ai prestiti del museo d'Orsay, dell'Art Institute di Chicago e del Cleveland Museum of Art. Tra questi, il più prezioso è Thérèse, la sorella tornata a Parigi con l'anello al dito ma dipinta con la cupola del Gesù Nuovo sullo sfondo, dalla casa di Napoli. «È strettissimo il suo rapporto con la città, finora poco indagato», spiega Bellenger. «Eppure, l'artista parlava il dialetto, rifiutava l'etichetta di illuminista e si definiva realista: nei fondi dei suoi dipinti, si scorge l'influenza partenopea». Il tratto ricorda quello di Antonio Mancini, in «Dopo il Duello», con la materia che in questa e altre opere sembra invadere le tele: un posto speciale è riservato al pittore (straordinaria la «Dama in rosso», e i ritratti del Philadelphia Museum of Art), amico di infanzia di Vincenzo Gemito, e particolarmente apprezzato in mattinata dal capo dello Stato.

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