Cantone: «Beni confiscati,
attenti alle associazioni sospette»

Cantone: «Beni confiscati, attenti alle associazioni sospette»
di Giuseppe Crimaldi
Mercoledì 1 Marzo 2017, 10:40
4 Minuti di Lettura

Più controlli e meno burocrazia. Sì alle vendite degli immobili che marciscono e si deprezzano per l'incuria del tempo (ma anche per le responsabilità dei controllori assenti). Ma attenzione anche ai furbetti: troppe associazioni beneficiano, spesso senza averne i titoli, dei tesoretti sottratti alla camorra. L'inchiesta del nostro giornale che ha documentato l'inefficienza delle destinazioni degli immobili spesso affidati ad associazioni e onlus del cosiddetto «terzo settore» che poi evaporano e scompaiono perché prive di fondi offre a Raffaele Cantone lo spunto per ribadire un suo antico pensiero. Il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione non ha mai cambiato idea, e lo dice da tempo: serve una nuova «governance». Un organismo manageriale capace di sciogliere i lacci legati a certe zavorre tipiche della pubblica amministrazione. Tiene banco il dibattito sulla gestione dei beni confiscati alle mafie. «Non servono ulteriori inasprimenti - dice Cantone - La riforma della legge ancora ferma al Senato non ne ha bisogno. Il nuovo testo dovrà privilegiare la tempistica: occorre lavorare sui tempi di destinazione».

Presidente Cantone, il sistema legislativo che prevede la confisca dei beni ai mafiosi dimostra di avere ancora troppe maglie larghe. Così non va. Qual è il suo pensiero?
«Non ritengo che il sistema, per come è strutturato anche con l'orientamento della giurisprudenza, abbia maglie larghe. Dunque non mi pare che ci sia bisogno di un ulteriore inasprimento. Semmai occorre lavorare sui tempi. È determinante intervenire il più velocemente possibile con la confisca, perché è dopo quel passaggio che si pone il problema della destinazione».
Lei è stato tra i primi a sostenere che è meglio alienare i beni immobili, anziché lasciarli marcire tra le pieghe dei tempi lunghi di una burocrazia che non aiuta. Come lei la pensano i magistrati della Dda impegnati in prima linea nella lotta alle mafie: da Catello Maresca al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.
«Non ne farei solo un tema di immobili ma di beni in generale. Secondo me l'alienazione deve essere l'extrema ratio, anche se non si può escludere a priori questa possibilità. Se un bene non ha alcuna chance di essere utilizzato, la cosa peggiore che si possa fare è lasciarlo deperire e deprezzare. Occorre far capire che anche l'utilizzo dei beni confiscati fa parte della strategia di contrasto alle mafie. Lo Stato non si può permettere il lusso di dare l'impressione che non è in grado di gestirli: devono essere un'occasione di sviluppo, soprattutto per alcuni territori».
Possibile che una soluzione di buon senso come quella delle vendite dei beni appartenuti ai boss trovi ancora tante resistenze?
«In qualche modo è comprensibile, perché il rischio vero è che alle aste siano acquistati da coloro ai quali sono stati sottratti. Una simile evenienza avrebbe un effetto molto negativo dal punto di vista dell'immagine. Quindi sì all'alienazione, ma prevedendo una serie di regole molto stringenti. Fra l'altro bisognerebbe anche stare molto attenti alle modalità della vendita: un bene appartenuto a un boss rischia di non essere realmente commerciabile nel mercato ordinario perché nessuno probabilmente lo comprerebbe, anche per evidenti timori di ritorsione. Quindi concordo con il procuratore nazionale Roberti: l'alienazione non deve essere un tabù; ma se un bene non può essere venduto, può essere destinato a finalità sociali migliori, ad esempio per i senzatetto».
Da oltre un anno, in commissione Giustizia del Senato, la legge di riforma sui beni confiscati alle mafie resta ferma. Nessuno, nemmeno gli addetti ai lavori, sanno spiegarne i motivi. Secondo lei che cosa tiene al palo questo provvedimento?
«Credo ci siano una serie di ragioni, non necessariamente legate ai beni confiscati visto che quella proposta di legge riguarda molti temi. Il problema è che ci sono interessi di associazioni, soprattutto quelle meno accreditate, che in passato sono riuscite a ottenere immobili senza operare alcuna destinazione, come dimostra l'inchiesta del «Mattino». Ovviamente non parlo di realtà come Libera che hanno dimostrato di essere molto serie nella gestione, ma va riconosciuto che c'è anche tanta improvvisazione, a volte alcune associazioni sono dubbie anche dal punto di vista della loro attività».
Ci spieghi meglio.
«Quando i beni vengono destinati a finalità sociali bisogna avere la certezza che chi li gestisce sia affidabile e prevedere meccanismi di controllo anche successivi».
Non solo appartamenti. La legge che prevede le confische dei beni mafiosi riguarda anche le aziende.
«È assolutamente indispensabile che nell'immediatezza della confisca si valuti se un'impresa possa continuare a operare. In tal caso lo Stato deve metterla in condizione di tornare nel mercato pulito, anche attraverso agevolazioni fiscali. Ma alcune aziende per loro natura hanno un know-how mafioso, essendosi rette unicamente sull'attività mafiosa: e non ha senso salvare a tutti i costi un'impresa imponendo ulteriori oneri a carico delle finanze pubbliche».