Oltre i manicomi criminali, cosa resta ancora da fare. Viaggio nella residenza in Campania che ospita ex internati | Foto

Oltre i manicomi criminali, cosa resta ancora da fare. Viaggio nella residenza in Campania che ospita ex internati | Foto
di Maria Pirro - Inviato
Martedì 29 Marzo 2016, 09:10 - Ultimo agg. 1 Aprile, 22:23
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Mentre il sole incendia gli alberelli, le vette aguzze si stagliano nel cielo limpido, di un azzurro profondissimo, e in fondo a questo viale di periferia, anche loro, gli ospiti colpiti da una vertigine, nel tornare dentro, si sentono sparire. Da giugno scorso li hanno trasferiti a Roccarama, in un viale a 80 chilometri da Napoli, nella provincia di Caserta, dove non arriva né l'autobus né il treno, in anticipo sulla chiusura del primo Ospedale psichiatrico giudiziario in Italia, con sede a Secondigliano, avvenuta a dicembre; invece un altro dei sei, quello ad Aversa, si svuoterà completamente nelle prossime settimane, entro aprile. 
 



Nel silenzio della montagna, di ex internati ne sono già passati tanti. «In fondo alla strada c'è una palazzina che non si vede, senza insegne e con un grande cancello», spiegano in coro gli ospiti, originari di diversi comuni della Campania, per indicare dove abitano. Incontrarli in strada è però un'eccezione: per uscire, da soli o assieme agli altri, devono avere il permesso del magistrato ed essere accompagnati dal personale della struttura. «È necessaria l'autorizzazione del giudice anche per andare a messa», fa notare, una volta superato il portone d'ingresso, Tiziana De Marco, che è ancora in attesa di averla, per effetto di una legge ancora in bilico tra assistenza e sicurezza, pietà e paura.

In questa Rems, la residenza nascosta agli occhi di molti che ha preso il posto dell'Opg, vivono in venti, uomini e donne, anziani, ammalati, casalinghe, laureati, giovani e forti, ritenuti dal giudice «socialmente pericolosi», nella maggior parte dei casi provvisoriamente: tutti sono infatti accusati di aver commesso un reato, dal tentato omicidio ai maltrattamenti in famiglia, ma di aver agito in un momento di «annebbiamento della mente». Per questo motivo, non sono stati portati in carcere, alcuni (il 66 per cento) lì non ci sono mai stati.

L'edificio che li accoglie è un'ex scuola, ceduta all'azienda sanitaria che l'ha adattata, per quanto possibile, alle nuove esigenze, senza sbarre alle finestre. Al piano terra si trova la portineria, che provvede a una «vigilanza discreta», e poi gli uffici di psichiatri, psicologi e assistenti sociali, due locali in tutto, per cui bisogna alternarsi per i colloqui o spostarsi in camera da letto, quando arrivano inquirenti o familiari. «Ho una figlia di 24, una di 10, uno di 18, un nipote di cinque e mezzo e un altro in arrivo», racconta Tiziana, che conta i giorni per festeggiare il compleanno e spera di poter avere una foto ricordo di quella data speciale. Le feste si organizzano dall'altro lato del corridoio, dove c'è un piccolo salottino con la tv e gli scacchi e, accanto, un'altra stanza con un tavolo rotondo, la macchinetta del caffè usata dagli operatori anche come deposito. Di fronte, il refettorio si trasforma in sala riunioni, per i dibattiti e le terapie di gruppo, palcoscenico, per le prove di teatro, pista da ballo, con la musica dal vivo grazie a uno strepitoso karaoke, ormai un appuntamento quotidiano, nonostante gli spazi siano limitati.

Santolo Tammaro si presenta così: «Sono il nipote della regina Margherita, delle Cinque Terre». Parla seriamente, ma sa anche recitare bene. «È uno degli attori più bravi nella recita di Pasqua», rivela soddisfatta la sua psicologa; mentre il quarantenne abbozza un sorriso e fa la guardia del corpo per un giorno, con gentilezza, in questo viaggio nella struttura sanitaria. Al primo piano ci sono le camere con quattro o tre letti: l'ultima, sulla sinistra, è riservata alle tre donne, tutte hanno il bagno all'interno, alcune occupate giorno e notte dagli afflitti da patologie croniche; mentre il secondo piano è interdetto: «Riservato agli impianti», chiarisce il medico Loris Ivan de Vita, responsabile della Rems. Peccato, perché sarebbe utile avere più spazio. Ma, quel che più è duro da accettare, è la carenza di verde all'esterno per qualsiasi tipo di esercizio, dal calcetto al giardinaggio: tutto cemento, tutto blindato. L'ennesimo muro è stato alzato dopo i disordini dei primi tempi, quando un ospite della struttura («un vero criminale») picchiò pure il direttore sanitario. Così questo luogo ha rischiato di essere conosciuto solo attraverso fatti di cronaca. «Anche gli incontri con il sindaco fino a oggi sono avvenuti esclusivamente in Comune o davanti all'altare con i pazienti», racconta la psicologa Silvana Caiazzo. Sotto il campanile, una curva in salita segna così il passaggio nel tratto di confine in un borgo di appena 800 anime.

È in questo viale più che deserto che Luigi Maisto, 46 anni, piange disperatamente come bimbo piccolo: «Devo andare via. Subito, mò», ripete qualche giorno prima delle dimissioni. «Fatti coraggio», gli dice Salvatore Ranieri, «dal 2016 rinchiuso in diverse strutture, da Genova a Reggio Emilia. Ho avuto due anni di pena: ne ho scontato uno, me ne resta un altro». Il trentenne chiede di parlare per segnalare che la caldaia per le docce e i termosifoni funziona male, e aggiunge: «Il cibo fa schifo. Devo comprarlo fuori tutti i giorni e ho paura che mettano qualcosa dentro per avvelenarmi». Di certo, la dieta è «un po' ospedaliera. Ma la maggioranza di queste persone non è ammalata. Anzi, avrebbe bisogno di normalità», obietta il personale Asl che per ciascuno ha difatti predisposto un progetto personalizzato, che punta essenzialmente sull'apprendimento di un lavoro o la ripresa di un'attività interrotta dopo l'arresto. Tramite un protocollo d'intesa, già sottoscritto tra Asl e Comune, è previsto che sia favorita «una stretta collaborazione con persone, cooperative e realtà produttive locali» contro il rischio di costituire qui, come in Opg, una nuova comunità di esclusi. A Roccaromana tutti i piani sono però nel cassetto: nonostante i budget di cura stanziati per ogni ospite, per articolati meccanismi non è stato speso un centesimo. «E questo è il problema più grande», dicono tutti gli operatori.

Karima Gaacem, nata in Algeria («ma da 26 anni vivo in Italia», dice) potrebbe fare la stiratrice. «Non sono mai prima andata in carcere, mai fatto guai, mai avuto a che fare con la legge. Ho solo sofferto tanto», racconta con emozione. «Voglio uscire di qui il più presto possibile», implora. Le figlie vengono una volta a mese: «All'epoca dei fatti avevano 17 e 21 anni, quando litigai con il mio compagno, e per questo sono stata condannata a un anno e un giorno di reclusione, ma non ho capito perché sono ancora dentro». Sospira: «Se mi trasferissero almeno in una casa famiglia, le ragazze potrebbero farmi visita più spesso; da sola, posso uscire solo con l'operatore». Decisivo è anche il ruolo dell'assistente sociale: «Li aiuto a ritirare la pensione e a fare tante altre cose. Qui si diventa come una famiglia», sorride Angela Ventrone. Ma è vero che oggi stesso in tanti potrebbero lasciare le Rems, solo che i parenti hanno bisogno di aiuto per accoglierli. «Il turn-over è già nettamente maggiore di quello degli Opg», spiega lo psichiatra Giuseppe Nese. «Alcune persone sono rimaste in Rems solo i pochi giorni necessari a raccordarsi con la magistratura per la valutazione dei progetti alternati predisposti, ma i margini di riduzione di questi tempi sono ancora notevolissimi. Basti pensare che circa il 60 per cento ha un progetto terapeutico-riabilitativo della Asl competente che attesta la possibilità di un'assistenza in un luogo diverso», la soluzione migliore auspicata da tutti, operatori e ospiti. «Vivere in quattro in una stanza, significa anche rischiare di prendere botte tutti i giorni», avverte Ranieri. «Certo, qui si sta meglio che in cella», interviene Tiziana che loda infermieri e medici.

«I miei amici sono morti, io sono fortunato», annota un ex tossicodipendente su un foglio bianco, anonimo come un messaggio lasciato da un naufrago in una bottiglia nella tempesta. «Vivi ogni giorno come fosse l'ultimo», scrive un altro. È la terapia dell'emozioni a cui aggrapparsi tra le onde che rimbalzano in queste mura.
Il mondo, dal quale l'ammalato proviene, rimane oltre la salita. Oltre la «palazzina che non si vede», come la definisce Salvatore, sotto accusa, ma anche vittima, perché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere anche se stesso.

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