Il mondo incantato di Banana Yoshimoto in una fiaba allegorica

Il mondo incantato di Banana Yoshimoto in una fiaba allegorica
di Donatella Trotta
Martedì 22 Luglio 2014, 17:03 - Ultimo agg. 9 Ottobre, 15:01
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Shizukuishi ha vent’anni, un olfatto speciale e il nome di un cactus: segno del suo legame atavico con la natura, inscritto nel suo destino. È lei la delicata e ipersensibile protagonista (ed io narrante) di «Andromeda Heights», il nuovo libro di Banana Yoshimoto appena pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Gala Maria Follaco (pagg. 100, euro 11).

Il libro è il primo titolo di una fortunata tetralogia iniziata nel 2002, intitolata «Il regno» e conclusasi quest’anno (entro la fine del 2015 Feltrinelli pubblicherà gli altri tre volumi).

Shizukuishi, la protagonista, è stata cresciuta fino a 18 anni dalla nonna - una donna giapponese indipendente e volitiva, guaritrice esperta di tè alle erbe officinali, sposata più di una volta - in un impervio e isolato rifugio di montagna meta, malgrado l’inaccessibilità, di molti viaggiatori speranzosi di trarre giovamento da quegli infusi.

A stretto contatto con l’incanto della natura intatta e con l’energia solare e terapeutica di sua nonna, Shizukuishi assapora la felicità di giornate operose nelle quali la rapacità di alcuni fa capolino solo in qualche goffo tentativo imprenditoriale di mettere le mani su quell’oasi di armonia annidata nel «mondo arcano» della montagna. Fino a quando la nonna decide di lasciare il Giappone e per la ragazza, improvvisamente sola, giunge il momento di misurarsi con se stessa e l’ambiente (inizialmente incomprensibile, per lei) della grande città.

E sarà qui che una serie di prove esistenziali e di incontri - primo fra tutti quello con Kaede, affascinante sensitivo cieco, di cui diventerà assistente - imprimerà una svolta determinante nella sua vita, caratterizzata da un’inclinazione all’empatia e ad una pietas implicitamente shinto-buddhista, ma che ad occhi occidentali potrebbe sembrare panteista se non addirittura animista. Impressione rafforzata, a metà libro, anche dalla pagina in omaggio a Pompei, dove la città archeologica viene evocata dalla persistente presenza, ancora oggi, dei morti per l’eruzione, avvenuta «così all’improvviso da lasciare dietro di sé qualcosa di sospeso», dice Kaede ricordando la sua visita nei dintorni di Napoli che gli diede «le vertigini». L’affascinante Kaede, co-protagonista del libro, può evocare in una sorta di contrappunto positivo Shunkin, la musicista cieca di un celebre racconto di Jun’ichiro Tanizaki, «Storia di Shunkin», in «Due amori crudeli». E il legame tutto nipponico con la natura, o il rapporto di Shizukuishi con la nonna, può a sua volta essere accostato ad un topos che, da noi, caratterizza diverse opere di Susanna Tamaro, forse non a caso cultrice di arti marziali orientali.

«Andromeda Heights» - che in copertina riporta una pertinente immagine orientale di Susanne Bund raffigurante due carpe variopinte, fluttuanti tra foglie d’acero e di ginko nel blu elettrico – è un romanzo breve, percorso da una vena di lieve e aggraziata freschezza che non guasta, in tempo di letture estive. Un libro che racconta nello stile congeniale all’autrice giapponese oggi 50enne – un rarefatto minimalismo inscritto in un’estetica/poetica che si potrebbe definire del Bonsai, capace di sprigionare emozioni e risonanze interiori a partire da piccole cose, dialoghi, pensieri e gesti di ogni giorno – una storia di formazione, amore e amicizia dal sapore di una fiaba allegorica.

Una storia, ancora, che miscela con efficacia i temi più cari al ”fenomeno Banana“ (Banana Gensho): il rapporto costante con la natura, ma anche con il soprannaturale, il paranormale e le percezioni extrasensoriali in una dimensione sospesa tra realtà, sogno e tradizioni mitiche che a tratti sprigiona qualcosa di salvifico e di consolatorio, come nei poetici film animati di Miyazaki; la solitudine, i sentimenti e i legami familiari non convenzionali, capaci di donare inaspettati frammenti di pienezza; il senso della perdita, la ferita dell’abbandono e il mistero della morte che sempre si accompagna allo scontro tra innocenza ed esperienza, nelle tappe del cammino di crescita.

E poi, da ultimo ma non meno importante, l’immancabile dimensione dell’infanzia come dimensione dello spirito che trascende l’età anagrafica. Un aspetto, questo, capace di donare uno sguardo di stupore che ben oltre le pagine di Banana Yoshimoto varrebbe la pena di riscoprire, nell’era del disincanto del mondo: «Più infantile di un racconto per bambini, un’allegoria priva di insegnamenti» definisce non a caso la propria storia all’inizio del libro Shizukuishi stessa, precisando: «Gesti insensati degli esseri umani, mondo visto da una prospettiva bizzarra. Una fiaba, quindi, ma leggermente contorta. Ciononostante in questa storia vi è qualcosa di buono. Il mondo ci sa svelare i suoi segreti in forme del tutto inattese». Basta saperli cogliere. Uno dei compiti, in fondo, della letteratura di ogni latitudine.

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